di Leonardo Agate - Nel mio lavoro che mi ha portato in giro per le Regioni italiane per più di venti anni, ho conosciuto negli anni ’80 in Calabria un senatore Dc, che aveva un seguito di elettori affezionati, tanto che venne rieletto per alcune legislature di seguito. Con questo politico divenni in modo largo amico, come si può diventare amici di un politico che ha bisogno di amicizie anche larghe, per la rielezione.
Quando si avvicinavano le elezioni, veniva nel mio Comune per concordare il luogo e l’ora del discorso. Il luogo per lui ideale era il balcone del palazzotto di un mio amico, posto nella piazza principale del paese. Nella piazza, tra altri edifici di minor pregio, c’era la Chiesa Madre e il palazzotto ottocentesco dell’amico mio, Don ***, aristocratico di antica estrazione e latifondista, della mia stessa età. Per la qualcosa e per la sua cultura proveniente dal Liceo Classico, eravamo diventati prima buoni conoscenti e poi cordiali amici. Io facevo da tramite tra il senatore e Don*** per la bisogna. La casa e il balcone per alcune ore venivano concessi al senatore e al suo seguito.
Era un senatore di tutto rispetto, tagliato apposta per la politica di allora. Portamento autorevole, sorriso amichevole, parlare vago e comprensivo di promesse e speranze per l’interlocutore. Gli piaceva pure mangiare con tanti commensali e beveva abbastanza, quel Cirò rosso e forte, che è meglio del Chianti classico.
Il suo bacino elettorale era costituito da solidi borghesi, impiegati aspiranti a una promozione, disoccupati aspiranti a un lavoro nella pubblica amministrazione. Ci sapeva fare, e aiutava per quel che poteva. Fra i suoi elettori c’era anche gente di malaffare, come può capitare a qualunque eletto. La mafia, che in quelle Calabrie si chiama Ndrangheta, aveva con lui contatti, non perché lui fosse affiliato, ma perché gli affiliati sentivano che in lui, in caso di bisogno per questioni amministrative, si poteva trovare aiuto. Il politico vuole i voti; gli elettori, a volte, certi favori. Così andava il mondo allora; anche ora credo.
Senonché erano gli anni successivi al periodo più buio della Repubblica, e le norme penali speciali consentivano una maggiore indagine, più penetrante, sui rapporti tra i politici e la gente di malaffare. Non che quelle norme dell’emergenza abbiano eliminato il cordone ombelicale tra la politica e il malaffare, ma si cominciò, da parte dei politici, a rischiare di più facendosi vedere a pranzo con un Ndrangatoso, o a farsi salutare da quello con un abbraccio e un bacio.
Il maturo senatore, che aveva iniziato la sua carriera quando uomini eminenti della Chiesa e delle istituzioni dichiaravano che le organizzazioni mafiose erano un’invenzione, continuava a mantenere rapporti di cordialità con personaggi chiacchierati. Ma potrei giurare, se me lo si chiedesse e per quanto ne capii personalmente, che nessuna effettiva collaborazione delittuosa ci sia stata tra lui e i cattivi; solo rapporti di cordialità, per le due eventualità in cui si potevano aiutare a vicenda: 1. Le votazioni; 2. l’accelerazione di certe ingarbugliate pratiche che, essendo tra il lecito e l’illecito, avevano bisogno di un santo in Paradiso per essere concluse.
Avvenne un giorno che il senatore tornò in aereo a Lamezia da Roma, e fra le persone che lo aspettavano all’aeroporto, soliti amici e funzionari di partito, si trovava pure una persona con precedenti penali per delitti di estorsione, quanto mai frequenti allora da quelle parti. Le forze dell’ordine ormai tenevano d’occhio le frequentazioni politiche. Fotografarono nascostamente l’arrivo del senatore. Nelle foto restarono le immagini del malavitoso che abbracciò il senatore per benvenuto, e gli prese dalle mani la nera borsa di pelle, portandogliela come un porta – borse. Queste immagini fecero parte del fascicolo accusatorio, che portò in tribunale il nostro politico. Lessi gli atti del processo; c’erano prove inconsistenti di suoi reali legami con la malavita; la procura, però, riteneva prova lampante l’occasionale alleggerimento del peso della borsa dalle mani del senatore da parte di quel tizio. Il processo, che cominciò e durò circa otto anni, tra primo, secondo grado e Cassazione, creò un malessere psichico al rappresentante popolare, che per le abbondanti e frequenti libagioni aveva anche i suoi malesseri fisici. Non riuscì nemmeno a essere candidato alle successive politiche. Conclusasi alla fine felicemente, con l’assoluzione definitiva in Cassazione, la sua vicenda giudiziaria, passò poco, e pure per l’età andò all’altro mondo.
Quel mio amico senatore ebbe la carriera distrutta da otto anni di processo che nemmeno doveva essere iniziato. Ma le cose di questo mondo vanno così; a volte si sale in alto, a volte si precipita giù, senza un perché specifico. Era salito in alto senza essere un uomo di Stato; era caduto in basso senza essere un delinquente. Le persone comuni rischiano a volte più di quelle che eccezionalmente ne fanno di tutti i colori, nel bene e nel male.
Il senatore non c’è più da un quarto di secolo, ormai; la giustizia continua a essere lenta come allora, e anche ora prende a volte abbagli, distruggendo carriere e persone.
La Mafia, la Ndrangheta, La Camorra e la Sacra Corona Unita continuano a fare i loro affari: sono più dure delle norme più severe, si riciclano dopo aver avuto colpi apparentemente mortali, rinascono dalle loro ceneri, come l’araba fenice. Sono gagliardamente contrastate dall’Antimafia, che a volte li combatte davvero, e a volte diventa una redditizia professione, che dà notorietà e proventi. Forse e senza forse, la Mafia e l’Antimafia si sostengono l’una con l’altra; tutte e due danno lavoro e reddito a decine di miglia di persone, da una parte e dall’altra. Se scomparisse la Mafia, dove troverebbero lavoro tanti Antimafiosi?