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02/12/2018 15:15:00

Il padrino fantasma. Ogni scoperta di malaffare in Sicilia è sbandierata come...

 Il latitante tutto vede, tutto muove, tutto decide. Matteo Messina Denaro viene presentato come il motore immobile del malaffare mafioso. Indagare su un qualunque bene in provincia di Trapani, dal più piccolo dei magazzini alla più grande delle società, significa scoprire, prima o poi, che è di proprietà del boss trapanese. Direttamente o indirettamente a lui riconducibile, attraverso uno dei dieci, cento, mille prestanome del capomafia fantasma.

   

 

Il superboss in fuga non c’è. In compenso vive nelle partite Iva delle aziende, nelle azioni delle società che via via finiscono sotto sequestro

L’ultimo dei padrini in fuga non c’è. La sua non si manifesta come un’esistenza fatta di carne e ossa. Neppure di bisbigli, per la verità. Silenzio assoluto. In compenso vive nelle partite Iva delle aziende, nei numeri dei conti correnti, nelle azioni delle società che via via finiscono sotto sequestro o in confisca. Negli ultimi sette anni un impero stimato in cinque miliardi di euro è passato in amministrazione giudiziaria.

 

   

L’ultimo caso riguarda il defunto cavaliere Carmelo Patti. Emigrato poverissimo da Castelvetrano, costretto a impegnare i mobili per stabilirsi in provincia di Pavia dove sarebbe diventato ricchissimo. Come? Innanzitutto, agganciandosi all’indotto Fiat che ha garantito soldi e fortuna a tanti imprenditori. Negli anni Ottanta un disastroso terremoto distrugge a Benevento gli impianti del principale fornitore di cablaggi della casa torinese. Patti sfrutta la sua sicilianità: mantenere la produzione al sud vuol dire godere di particolari esenzioni fiscali. Il rapporto con Fiat si fa simbiotico, la stima degli Agnelli nei suoi confronti è granitica, tanto che il gruppo torinese gli chiede di assumere 400 lavoratori ausiliari della catena di montaggio di Pomigliano d’Arco. Poi, la fortuna sale sulla macchina sbagliata, una Fiat Marea, modello che non è entrato nella storia dei successi automobilistici. Addio commessa milionaria per i cablaggi e fine dell’avventura industriale partita dall’Italia e approdata in Sudamerica con la Cablelettra do Brasil. In mezzo c’è la scalata a Valtur, colosso del turismo, travolto dai debiti tanto da finire negli ultimi anni del suo percorso in amministrazione controllata.

 

   

 

Patti era diventato ricchissimo agganciandosi all’indotto Fiat. Poi l’addio alla commessa milionaria, la scalata a Valtur e infine le indagini

Infine arrivano le indagini. Ancora non si parla di mafia, ma della spregiudicatezza di un imprenditore che si è messo alla guida di una galassia di aziende che fabbricano fatture false. Acquisti gonfiati, a volte inesistenti, per taroccare i bilanci, evadere l’Iva e accumulare fondi in nero. Eppure Patti verrà assolto. La faccenda si complica quando spunta la malerba della Sicilia, la mafia. L’accusa è pesantissima: Patti è organico alla famiglia mafiosa del suo paese. Ancora una volta uscirà immune grazie a un’archiviazione. A Castelvetrano, però, i Messina Denaro, il padre mastro Ciccio e il figlio Matteo, sono come la gramigna: infestanti. Patti non si salva dal contagio. Fioccano le dichiarazioni dei pentiti. Dell’imprenditore Angelo Siino, ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra, disse che “mastro Ciccio Messina lo teneva per le mani tanto che Bernardo Provenzano ci scherzava su, dicendogli che lui non aveva problemi a passare le vacanze alla Valtur”.

 

  

E allora si torna a guardare alle vecchie indagini, quelle archiviate per mafia e per le false fatturazioni per le quali è arrivata un’assoluzione. Si scoprono sospetti passaggi di denaro fra personaggi poco raccomandabili. Le maglie delle misure di prevenzione sono strette che più strette non si può. I contatti con personaggi “organici, contigui o in qualche modo vicini alla mafia” rendono Patti, come tanti altri, un personaggio socialmente pericoloso. Specie quando di mezzo ci sono i parenti acquisiti di Matteo Messina Denaro.

  

 

I contatti con personaggi “organici, contigui o in qualche modo vicini alla mafia”. Gli amici con delicati parenti acquisiti

Uno dei personaggi chiave dell’indagine patrimoniale è Michele Alagna. Lui e Patti si erano conosciuti per caso dal barbiere nel 1991. Cinque anni dopo, nel 1996, la sorella di Michele, Lorenza, avrebbe reso Matteo Messina Denaro padre di una bambina. Michele Alagna, insegnante divenuto commercialista, scala le posizioni. E’ l’alter ego di Patti fino a condividerne il processo e l’assoluzione per la frode fiscale. Perché tanta fiducia? “Largo ai giovani”, disse il cavaliere. I giudici che hanno confiscato i beni di Patti sono convinti che la parentela con Matteo Messina Denaro, “se nota o utilizzata in giudizio, bene avrebbe potuto costituire un ulteriore elemento idoneo a spiegare meglio il ruolo rivestito da Alagna Michele”.

 

   

Ed ecco di nuovo la gramigna. Non c’è arresto o sequestro che non venga sbandierato come l’ennesima tappa di un cerchio che si stringe ogni giorno di più attorno al Padrino trapanese. Sono anni che si stringe, ma il boss resta latitante dal lontano 1993, quando andarono a bussare alla porta di casa sua per notificargli un ordine di arresto per le stragi di Roma e Firenze, ma anche di centinaia di omicidi commessi fra gli anni Ottanta e Novanta.

  

Delle due l’una: o il cerchio era larghissimo oppure non è vero che si stringa per come si dice. In compenso senza il capomafia di Castelvetrano il lavoro investigativo perde l’appeal necessario per finire in prima pagina sui media nazionali o in onda durante i telegiornali delle 20. Senza il boss di Castelvetrano le notizie restano confinate alle cronache locali dal deserto Sicilia. Perché di deserto si tratta. Negli ultimi anni sono state sequestrate e confiscate centinaia di imprese edili, grandi alberghi, oleifici, strutture sanitarie, aziende vitivinicole, impianti di energie alternative, cooperative varie. Diventa difficile capire se esista economia sana in quella provincia.

 

  

 

L’ombra del latitante ha fatto comodo a una generazione di boss per fare affari e soldi. Tanti sono finiti in un gioco più grande di loro

Molti dei beni appartengono davvero a Messina Denaro, altri sono di sicuro dei suoi vecchi compari, ma la verità è che l’ombra del latitante ha fatto comodo a una generazione di boss per fare affari e soldi. E poi ci sono coloro che, non è da escludere, sono finiti dentro un gioco più grande di loro. Vittime inconsapevoli, ma non per questo incolpevoli, di quei contatti azzerati dall’operazione terra bruciata che si è fatta attorno a un capomafia che resta un fantasma in casa propria.

 

  

Sono stati arrestati sorelle, cognati, cugini di primo, secondo e terzo grado del latitante, ma di lui neppure l’odore. “Cioè arrestano tutti i tuoi parenti e tu non ti muovi? Ma fai bordello… svita a tutti… dici ‘uscite tutti fuori… sennò vi faccio saltare’”, diceva un mafioso di San Giuseppe Jato. Niente, la sua presenza resta impalpabile. Silenzio assoluto, almeno fino al prossimo blitz o al prossimo sequestro che sarà ricondotto al latitante.

 

Di Messina Denaro si è detto di tutto e di più. C’è chi lo ha visto seduto al tavolo di un ristorante, chi ha dialogato con lui nel corso di un summit in un paesino trapanese, chi lo ha incontrato a caccia, chi è sicuro che si sia sottoposto a un intervento di chirurgia plastica al volto. Per primi gli investigatori e i pubblici ministeri, dopo una stagione probabilmente sciupata a battere piste improbabili, hanno iniziato a scremare il lavoro. L’ultima circostanza giudicata concreta risale al 2014, quando fu scoperta la rete di pizzinari gestita da Vito Gondola. Arresto dopo arresto, a Matteo Messina Denaro non restò che guardare al passato, affidandosi all’anziano boss di Campobello di Mazara. Un mafioso vecchio stampo, c’era pure Gondola alla cena organizzata nel dicembre del 1991 a base di ostriche, aragoste e Dom Perignon nella casa di Tonnarella dove dimorava Totò Riina. Fu lì che il capo dei capi decise di sterminare i nemici della mafia marsalese. Gondola fu intercettato mentre prelevava da sottoterra in uno sperduto fazzoletto di campagna – neppure questo è stato risparmiato dalle microspie – un biglietto attribuito al latitante.

 

Da allora stop alla posta per il latitante che diviene un fantasma. C’è uno spiegamento di forze che non ha eguali su tutto il territorio nazionale. E’ per questo che fa più impressione il silenzio del latitante. Il silenzio da una parte e dall’altra il rumore dei piccioli di un impero economico di cui Messina Denaro viene presentato come il motore immobile.

  

Chissà magari un giorno si scoprirà che il mito del capomafia sciupafemmine e mangiasoldi corrisponde a verità. Che Messina Denaro si gode le ricchezze in qualche isoletta del Pacifico o si fa beffa di tutti abitando a un tiro di schioppo dalla sua Castelvetrano. Qualcuno però pensa che la bella vita di un tempo oggi sia solo un ricordo. I soldi gli continuano ad arrivare. Ogni tanto apre una finestra e riceve il minimo indispensabile per tirare avanti. Come la borsa piena di soldi che gli doveva essere consegnata nel 2012 e di cui parlò Lorenzo Cimarosa, cugino del latitante divenuto collaboratore di giustizia.

  

Un anno dopo, nel luglio del 2013, un’altra intercettazione faceva emergere le necessità economiche di Messina Denaro. Giovanni Santangelo, zio materno del latitante, spiegava alla sorella Rosa che “gli servivano i soldi…”. A chi? Il tono bassissimo delle voci non impedì di sentire pronunciare il nome “Mattè”.

  

Manager facoltoso o mafioso squattrinato: si spera di scoprirlo presto, significherebbe averlo assicurato alla giustizia. Nel frattempo le cronache continueranno a guadagnarsi le prime pagine dei giornali perché sull’impero economico di Messina Denaro il sole non tramonta mai.

Riccardo Lo Verso - Il Foglio, 1 Dicembre 2018