Ottantotto presentazioni in tutta Italia. Dal Veneto alle Marche, dalla Lombardia alla Calabria, passando per il trentino, la Toscana, l’Emilia…
Quando, un paio di settimane fa, Attilio Bolzoni presenta “Il padrino dell’antimafia” a Castelvetrano, è forse la cinquantesima tappa.
Il libro, frutto di 4 anni di lavoro in 63 taccuini, racconta un sistema marcio, infetto, fatto di una finta antimafia che, col concorso più o meno consapevole di un numero enorme di persone, ha occupato impropriamente per anni l’olimpo dei paladini della “legalità”.
L’incontro con l’autore, presso l’atelier Pensiero Contemporaneo di Selinunte, due settimane fa ha tenuto incollato alle sedie il numeroso ed attento pubblico per tre ore di seguito.
Impossibile fare una sintesi esaustiva di tutti i temi trattati. Ne affronteremo soltanto alcuni, nella consapevolezza che questa carenza potrà essere colmata leggendo il libro.
Un libro che non è soltanto la storia del “sistema Montante”, ma anche quella di un giornalista attento che, inciampando sull’uomo simbolo della legalità per Confindustria, si è ritrovato “suo nemico e nemico dei suoi amici solo per avere scritto qualche articolo, per avere dato notizia che era sotto indagine per reati di mafia”.
E’ un giornalista curioso, Attilio Bolzoni. E la curiosità, come diceva Totò Riina, è l’anticamera della sbirritudine.
LA NUOVA MAFIA
Dopo la spaventosa ed anomala parentesi corleonese dei morti, del cratere di Capaci, dei kalashnikov, dei delitti eccellenti di Palermo, la mafia si è riappropriata della sua natura ed è tornata se stessa.
“Le facce sconce dei corleonesi – racconta Bolzoni - sono state sostituite dal ricciolo di Montante, dall’annacatina di Lo Bello, con una discarica pubblica che diventa privata. Tutti mischiati con pezzi dello Stato, come prima dei corleonesi”.
Quando è cominciato tutto?
Difficile dirlo, non c’è una data precisa. Ma l’arresto di Bernardo Provenzano, nel 2006, potrebbe aver segnato questo inizio.
“L’ultimo dei corleonesi viene arrestato dopo 43 anni di latitanza – spiega Bolzoni- E lì inizia l’irresistibile ascesa del cavaliere Antonio Calogero Montante, detto Antonello. Un siciliano nel cuore di un boss di Cosa Nostra diventa il faro dell’antimafia italiana. Il delitto perfetto”.
Dai suoi 63 taccuini, bolzoni fa un elenco e ci rimane male, perché era una lista che già conosceva: giornalisti, scrittori, presidenti di Confindustria, presidenti di banche, generali della finanza, dei carabinieri, prefetti, questori, ministri, alti funzionari del Viminale…
“Quell’elenco l’ho conosciuto nel 1981, che ero ancora un ragazzo. Ed era l’elenco trovato dal dottor Turone e dal dottor Colombo quando hanno perquisito la villa Wanda di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. Le categorie sono le stesse, ma i tempi cambiano. Non c’è più bisogno di cappucci o di squadre e compassi: società più liquida, crimine più liquido. Anche gli obiettivi sono gli stessi: controllo degli apparati di sicurezza, della magistratura, dell’informazione e dei sindacati. E sono gli stessi anche i mezzi per arrivare agli obiettivi: spionaggio, centrali clandestine di ascolto, pedinamenti, violenze soffocate nel silenzio”.
E’ una P2? Ci assomiglia molto. Un organismo criminale a cui il giornalista non è ancora riuscito a dare un nome.
Ma il personaggio principale del libro è lui: Calogero Antonio Montante detto Antonello, di Serradifalco in provincia di Caltanissetta.
Presidente della Camera di Commercio nissena e di Confindustria siciliana, rimane punto di riferimento sia con Totò Cuffaro che con Raffaele Lombardo e Rosario Crocetta.
Appoggiato praticamente da tutti: imprenditori, associazioni antiracket, giornalisti, scrittori, ministri, direttori della Dia, procuratori. Perfino Matteo Renzi, da premier, l’avrebbe voluto come ministro.
E Bolzoni queste le cose le scrive in un articolo di Repubblica, già il 30 ottobre 2015:
“Sono diventati padroni di tutto. E anche di tutti. Hanno ridotto la Sicilia in una sorta di schiavitù, signori e servi. Lo chiamano il califfato di Palermo. Eccola la classe dirigente dell’isola che, dieci anni fa all’incirca, si è presentata all’Italia per fare una ‘rivoluzione’. Affari, affari, solo affari. Sotto la maschera c’è sempre stata una Cupola che sembrava intoccabile”.
MONTANTE E CASTELVETRANO
Certo, l’occasione è quella giusta per chiedere ad Attilio Bolzoni che cosa, in questa vicenda porta a Castelvetrano.
Lui risponde così:
“Avevo avuto un’informazione interessante da Milano. C’erano sei AP Consulting, nello stesso palazzo. Ed un amico mi dice che Montante è in società con la figlia di Patti, quello della Valtur.
Ho scoperto che una delle società di Milano era tra quelle sequestrate dell’impero di Carmelo Patti. La star dell’antimafia s’era messo in società con la figlia di Patti, quando quest’ultimo era sotto indagine per mafia e gli era stato sequestrato il patrimonio. Per me era un segnale importante, perché mi chiedevo: come è possibile?
Ma diverse tracce portano a Castelvetrano. L’imprenditore nisseno Massimo Romano ha qui a Castelvetrano una serie di supermercati. Un indagato di un’altra inchiesta ha qui degli appalti negli ospedali. Un’altra persona fa parte di un patto politico di Castelvetrano di qualche anno fa, dove anche lui ha spiccato il volo.
Per tornare a Patti, quando torna in Sicilia, nella metà degli anni ’90, convoca una conferenza stampa al teatro Massimo di Palermo. La Sicilia di Catania gli dedica molte pagine, gli altri giornali un po’ meno.
Davanti a tutti i giornalisti lui esordisce dicendo: ‘La mafia non esiste più’. Al che, dico ad un collega: ecco, questo è un personaggio da tenere d’occhio”.
LIBERA E DON CIOTTI
Ma per Bolzoni, quella che arriva da Libera e da don Ciotti è l’amarezza più grande:
“Ho un grande rispetto per Ciotti, per quello che ha fatto. Soprattutto nel gruppo Abele ha salvato un sacco di ragazzi dalla droga quando nessuno li salvava. Però Libera è un’associazione che non rappresenta più l’antimafia, ma una retroguardia.
Io a Ciotti l’avevo avvertito di non fare protocolli di legalità con Montante. L’ho fatto nel 2014, prima di scrivere. Gli ho detto: “Guarda, non farli perché puzza. Stai attento”. Io sapevo già che era indagato, ma non gliel’ho detto.
Non solo Libera manda avanti un’operazione di protocollo di legalità nel 2015, interrompendolo solo quando la notizia che Montante era indagato per mafia diventa ufficiale. Ma fa di più.
Nel gennaio del 2016, la procura di Caltanissetta fa la prima scopertura degli atti. E viene fuori che Antonello (come lo chiama lui) – imprudenza linguistica di Ciotti – è sospettato di avere rapporti permanenti con Cosa Nostra dal 1990. Da 26 anni è sospettato di riciclaggio e di altri reati.
Appena un mese dopo Ciotti firma un protocollo di legalità a Torino con il socio di Montante, Ivan lo Bello. E dopo un altro mese, a marzo dice: ‘Spero che dimostri la verità’. Attenzione, non ‘la sua innocenza’ o ‘la sua verità’. Ma proprio La verità.
Per trent’anni ha parlato di percorsi di verità e di solidarietà ai magistrati, ai carabinieri, ai poliziotti, ai finanzieri. Qui, per una volta, non dà solidarietà agli investigatori, ma solidarietà indiretta a Montante. Io credo che sia Ciotti che i dirigenti di quest’associazione non abbiano gli strumenti culturali adeguati per decifrare che cosa è successo.
Quando la mafia spara e si manifesta con le stragi e con i morti, è facile per tutti noi distinguere i buoni dai cattivi. Quando invece non spara più, perché si è riappropriata della sua natura, chi non ne è consapevole non si raccapezza. E secondo me, Libera non si è raccapezzata in questa vicenda.
Nello stesso tempo, lo Stato italiano, dopo aver mostrato i muscoli dopo il 92/93 reagendo contro la violenza di Cosa Nostra e cominciando a disarticolare l’organizzazione militare dei corleonesi, ha ripreso i suoi ritmi, il suo respiro. Lo Stato italiano non è un blocco unico; abbiamo un pezzo di Stato che funziona ed un altro pezzo di Stato col cuore nero, invischiato nel depistaggio delle stragi.
A Libera è come se questa cosa sfuggisse. Insomma, ci sono i prefetti “buoni” e ci sono quelli amici di Montante.
Però, questi dell’antimafia hanno i nervi scoperti. Ciotti appena sente il nome di Montante comincia ad urlare, si scompone, alza la voce.
Io non ho nulla contro Ciotti, ma l’antimafia non è alzare la voce. Oppure buttare fuori le persone quando non gli piacciono, come nel caso del figlio di Pio La Torre.
E’ un’antimafia che ha dimostrato di essere molto addomesticata, attenta a prendere tanti finanziamenti e poco attenta al sapere e conoscere le cose. E’ gonfia di retorica e sgonfia di sapere.”
Inoltre, un anno prima della cacciata di Franco La Torre - questa cosa nel libro non c’è perché è troppo periferica, ma l’occasione è buona per ricordarla – a Castelvetrano, nel proprio piccolo, ci si portava avanti col lavoro. Nel 2014 venivano infatti azzerati i referenti storici di Libera.
Il gruppo locale veniva silenziato e poi commissariato, senza nemmeno aspettare la nomina di un nuovo referente: da subito, non avrebbero più potuto parlare a nome di Libera. Ciotti, più volte sollecitato via mail per delle spiegazioni, non ha mai risposto.
TANO GRASSO
E poi c’è Tano Grasso.
“I capi della sua Federazione Antiracket Italiana – ci dice Bolzoni - sono stati i primi a manifestare la loro solidarietà a Montante, subito dopo aver saputo dell’indagine a suo carico”.
Anche qui, tanta retorica e poco sapere.
In quanto a retorica, Tano Grasso si era già portato avanti col lavoro qualche anno prima, sempre a Castelvetrano.
E ancora una volta, cogliamo l’occasione per raccontare un’altra cosa, molto locale e periferica, che nel libro non c’è.
Nel 2012, alla testa di una piccola carovana composta da prefetto, questore, sindaco, comandanti delle forze dell’ordine e gruppi scolastici, Tano Grasso aveva fatto una passeggiata per il corso principale della città, proponendo ai negozianti di formare un’associazione antiracket locale.
Il tutto, evidentemente, senza aver approfondito la realtà di Castelvetrano: da sempre “pizzo-free” proprio per volere di Matteo Messina Denaro.
Insomma, un’idea campata in aria per affrontare la mafia combattendo un pizzo che non c’è.
Certo, Grasso magari sarà stato tratto in inganno da un’iniziativa dell’allora sindaco Felice Errante che, appena due mesi prima, dalle telecamere del Tg2 aveva annunciato che avrebbe tolto l’Imu, la tassa sull’immondizia e l’imposta sulla pubblicità a chi avrebbe denunciato il racket.
Rai 2 aveva intervistato anche il titolare di un bar e la proprietaria di una cartolibreria, che però dicevano di non aver mai ricevuto richieste di pizzo. E va beh, chi ci crede? Omertosi. E allora avanti tutta contro un racket fantasma, fino a voler creare un’associazione che avrebbe aiutato i commercianti a reagire.
“ZERU TITULI”
“Quelli avevano un congelatore pieno di teste di capretto, di coniglio, di vitello, di topo, che utilizzavano alla bisogna. E poi – spiega Bolzoni - tutta una serie di proiettili, guarda caso tutti 7,65, il vecchio calibro delle pistole della polizia, che disseminavano per le finte intimidazioni.
Il più clamoroso di questi attentati è stato quello alla sede di Confindustria. Sentivo questo procuratore generale che diceva ‘Attentato! Sede devastata!’. Allora ho chiamato Giovanni Crescente, che mi ha raccontato di essere entrato ed era quasi tutto in ordine. La maggior parte delle carte erano già state portate via da Montante. Era il 2007. E già allora sarebbe stato possibile intervenire”.
Giovanni Crescente, è un castelvetranese che Bolzoni definisce “un uomo per bene in mezzo a tanti lupi”:
“Conoscevo suo fratello Luca, un bravissimo magistrato che se n’è andato troppo presto, un malore a trentanove anni – scrive nel libro – era sostituto procuratore della repubblica a Palermo, la toga l’aveva indossata per la prima volta ai funerali di Falcone. […]
La sua vita negli ultimi anni è avvelenata dall’incontro con Montante e dai suoi sgherri. Lui, che è troppo perbene per eseguire certi ordini, all’improvviso viene licenziato. […]
Vengo a conoscenza per la prima volta che nessun imprenditore siciliano che aveva avuto rapporti con mafia e con mafiosi era stato mai espulso da Confindustria, nonostante i proclami degli ultimi dieci anni. […]
Su uno dei miei taccuini segno il dato che mi rivela Giovanni: ‘Zeru tituli’. Zero espulsioni.
“Il padrino dell’antimafia” è un libro in grado di stimolare diverse riflessioni, perché non rivela soltanto un sistema apicale marcio, ma anche tutte le dinamiche che a questo erano collegate.
Dinamiche che possono essere riconosciute in città diverse ed in tempi diversi.
E che hanno trasformato l’antimafia in una farsa.
Egidio Morici