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03/01/2020 06:00:00

Due parole per due decenni. Vanessa Ambrosecchio, Sbarco / Approdo

Alla mezzanotte del 31 dicembre, non succede soltanto di strappare dalla parete l’ultima pagina del calendario del 2019. L’impercettibile, eppure decisivo, passaggio da un anno all'altro stavolta ci introduce in un nuovo - e per definizione, imprevedibile - decennio: una prospettiva interminabile, si potrebbe pensare, per una società che comincia ad adattarsi al ritmo delle effimere, i piccoli insetti acquatici che sopravvivono appena un giorno. O meno poeticamente alla durata di una storia su Instagram, che inesorabile scompare dopo ventiquattro ore.


Allora, per attraversare insieme questa invisibile linea di confine, in direzione del 2020, abbiamo chiesto ad alcuni scrittori siciliani, che periodicamente avete letto sulle nostre pagine, di raccontarci quali parole portano con loro in questo viaggio: quale parola sintetizza il sentimento dei dieci anni che ci lasciamo alle spalle, quale raccoglie le speranze che animano i prossimi dieci, venti, cento?

Con questo sillabario vorremmo cominciare a muoverci dentro la complessa stagione che si sta aprendo davanti a tutti noi. Sicuri che non esiste un tempo indecifrabile, oscuro o tenebroso: per poterlo leggere, però, è sempre necessario avere delle parole che ci facciano da lumi.

 

 di Vanessa Ambrosecchio

SBARCO

Se camminando lungo l’arenile guardo il mare col sentimento della memoria, l’immagine che mi abbaglia, prima che mi assordi la parola, è “sbarco”. Gli sbarchi ci hanno affollato gli occhi e le paure, in questi anni, paure in ciascuno contrastanti e diverse. Ma non è stata solo una parola pubblica e politica, per me. Nella mia questione privata sono stati, i miei 20 tra i 30 e i 50, anni di sbarco, poiché tale è ogni inizio e ogni osare di questi anni adulti. Sbarco è nome di azione, indica l’atto del giungere dal mare e riversare a terra il contenuto. Ma l’accezione è prevalentemente militare: è in territorio nemico che si sbarca, o ostile, o quantomeno ignoto. Da Troia a Itaca, Ulisse è quasi sempre vittima dei suoi sbarchi. Allora mi fermo coi piedi nell’acqua, volto le spalle al mare.

APPRODO


E se provassi a guardare da qui, col sentimento del futuro? L’immagine che affiora, ahimè, non è diversa, ma col punto di vista cambia la parola: “approdo”. Anche questo è un nome di azione, azione sinonima, ma mentre lo sbarco tiene etimologicamente in grembo il tumulto della traversata, la nausea del suo moto, il fragore nelle orecchie, il mondo lasciato indietro e portato dentro, la morte cui ti strappi, l’approdo è l’altra porta di Giano. È Ulisse che alza la faccia dalla sabbia di Scheria e si guarda intorno: «Forse feroci selvaggi saranno, nemici del giusto, od ospitali, e avranno l’ossequio dei Numi nel cuore?…» L’approdo porta in sé il greto che calpesti, un sentore di fondamenta e radici, voci che ti fanno sperare, l’imperativo cieco della sopravvivenza che cancella ogni ricordo e ti affama di futuro, poiché la “proda” è luogo facile all’attracco, acconsente all’arrivo e accoglie. Il tempo nuovo non viene, è già qui, coi piedi nell’acqua e gli occhi alla sponda. Voltiamo le spalle. E che tutti gli sbarchi, i miei minimi e i loro fatali, si facciano approdi.