Il collaboratore di giustizia Franco Di Carlo è uno che sa. E’ stato testimone oculare del famoso incontro tra Stefano Bontade e l'allora imprenditore Silvio Berlusconi, ed è uno dei primi pentiti ad aver parlato dei cosiddetti mandanti occulti a Cosa nostra nelle stragi. Più volte, in questi anni, ha riferito dei suoi rapporti diretti con ambienti dei servizi segreti e proprio su questo è stato chiamato a deporre, nei giorni scorsi, nel processo che ha portato alla sbarra la primula rossa di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro, con l’accusa di essere stato uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio.
Già negli anni Settanta frequentava figure come il generale Vito Miceli (l’allora capo del Sistema informazioni difesa, il servizio segreto militare sciolto nel 1977, ndr) o il colonnello Santovito (piduista, quindi direttore del Sismi tra il 1978 ed il 1981, ndr) ma è mentre si trovava detenuto in Inghilterra nel carcere di Full Sutton, attorno al 1988, che quei rapporti con gli apparati dei servizi assunsero un’ulteriore forma. “Un giorno il capo guardia mi dice che ci sono tre amici che vogliono parlare con me, ma io non li conoscevo - ha raccontato collegato in videoconferenza - Erano vestiti per bene. Solo uno parlava inglese, gli altri due italiano. Uno di questi si presenta e mi dice di chiamarsi Giovanni e che mi porta i saluti di Mario, un altro soggetto appartenente ai servizi segreti che io avevo frequentato a Roma tramite il generale Santovito. Poi mi presenta gli altri due. Io chiesi loro se facevano parte dei servizi come Mario e mi dissero che lavoravano per il ministero dell’Interno”.
Far fuori Falcone
Secondo il collaboratore quei tre personaggi avevano l’intento di “fermare il dottore Falcone e chi aveva attorno, perché avevano delle preoccupazioni, visto quello che stava facendo la procura nazionale antimafia. I politici tremavano. Falcone stava anche cercando di centralizzare la polizia. Il capo della Polizia non sapeva più niente in quanto i giovani funzionari andavano tutti da Falcone”.
Il loro obiettivo, dunque era "trovare un contatto giusto perché a Palermo dovevano fare delle azioni”. “Io dissi che potevo aiutarli, a loro non interessava arrestare le persone - ha poi aggiunto - Abbiamo parlato di tante cose e mi dissero che avevo buoni contatti visto che Riina l’ho tenuto anche in casa”.
La lettera a Ignazio Salvo
A ben vedere la carriera criminale di Di Carlo, all’interno e all’esterno di Cosa nostra, si è sempre caratterizzata proprio per i rapporti intrattenuti con esponenti politico-imprenditoriale-istituzionale. Tra questi vi era quello con gli esattori siciliani, i cugini Salvo. E secondo l’ex boss proprio uno di loro, Ignazio Salvo, sarebbe stata la persona ideale per aprire un canale con questi esponenti dei servizi. “Scrissi a Ignazio Salvo, era l’unica persona preparata politicamente ed eravamo buoni amici e sapeva dei miei segreti con Nino Salvo, che nemmeno Cosa nostra conosceva. - ha raccontato - Per questo gli faccio un bigliettino e lo faccio arrivare a lui, dicendogli di dire a Riina che può avere una mano”. Dopo l’assenso di Riina, secondo il racconto del collaboratore, ci sarebbe stato l’incontro tra l’agente dei servizi, Giovanni, e il politico Dc, “in una traversa di via Veneto dove aveva lo studio Lima” e si sarebbe deciso che una figura di raccordo sarebbe stato Antonino Gioé.
I discorsi con “l’inglese”
I contatti non si esaurirono in quell’incontro. Di Carlo, infatti, continuò a relazionarsi con un altro dei tre soggetti, quello che chiamava come “l’inglese”. “Io non ho avuto più bisogno di Gioè in quanto l’inglese mi veniva a trovare in carcere - ha spiegato rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Gabriele Paci - Con lui iniziammo a parlare di quello che accadde a Palermo. E’ successo l’attentato all’Addaura, poi dopo hanno ucciso i due poliziotti (Nino Agostino ed Emanuele Piazza, ndr), uno era morto con la moglie che aveva un bambino in grembo. E l’inglese mi disse che era sbalordito in quanto non si aspettava che le cose andassero così”. Di Carlo approfondì, con l’uomo dei servizi, i fatti del fallito attentato ai danni del giudice Falcone, nel 1989: “Mi disse che era un avviso. Poi abbiamo parlato quando sono iniziate le famose lettere del Corvo che parlavano contro Falcone e il dottore De Gennaro e lui confabulava così - ha proseguito - Quando aveva sentito che avevano ucciso il primo poliziotto e il secondo, io gli dissi: ‘Che fanno come in Cosa nostra che prima lo usavano e poi lo uccidono?’ Lui rispose: ‘Se cominciano così non so dove finiscono’. Ma non mi chiarì i punti".
Il riconoscimento di La Barbera
Sempre parlando del primo incontro in cui si trovò a parlare con i tre soggetti appartenenti ai servizi, Di Carlo ha raccontato di aver appreso dopo il nome di uno dei soggetti. Una persona che rivide tempo dopo anche in occasione di un interrogatorio avuto con i giudici Giuseppe Ayala e Giuseppe Di Lello: si trattava di Arnaldo La Barbera, capo della Squadra Mobile di Palermo (morto nel 2002 e oggi considerato l'ispiratore del depistaggio sulle indagini della strage di via d'Amelio, dove nel '92 furono assassinati il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della scorta).
“L’ho riconosciuto perché era uscito sui giornali dopo tanto tempo ed era lo stesso che quando chiesi a quei tre se fossero dei servizi e acconsentirono con la testa - ha detto Di Carlo - Per essere sicuro che fosse lui ritagliai la foto e la feci vedere. Mi risposero che era lui. Era questo il soggetto che venne insieme ai magistrati che non voleva entrare nella stanza in quanto aveva intenzione di tornare da noi. Era il Dottore La Barbera”.
I contatti con i servizi libici
Nel corso dell’esame l’ex boss di Altofonte ha anche raccontato di aver avuto contatti anche con gli apparati dei servizi di sicurezza stranieri. L’ex capomafia di Altofonte trascorreva le sue giornate con un soggetto di origine palestinese che aveva lavorato nei servizi segreti libici, coinvolto nell’attentato all’aereo di linea caduto in Gran Bretagna che provocò la morte di circa 300 persone. L’uomo dei servizi veniva visitato dai suoi colleghi in carcere e avrebbe presentato loro, vista l’amicizia, lo stesso Di Carlo. “Quando mi presentò questi si misero a disposizione di Cosa nostra - ha detto il teste - Mi dicevano che volevano incontrare un mio parente a Roma visto che avevano delle conoscenze e per questo li ho fatti incontrare con Nino Gioè”. Una volta avvenuto l’incontro Gioè raccontò a Di Carlo, per telefono, che sarebbe avvenuto “nel consolato o siriano o libico, mi disse che sono pezzi grossi e possono fare tanto”.
Il collaboratore ha poi riferito che i servizi libici “sapevano tutto dell’Italia e anche di Falcone di chi frequentava e secondo loro stava sempre dentro l’ambasciata americana, visto che l’avevano seguito. Non so se è vero oppure no del fatto che Falcone era stato ricevuto in Israele come un capo di Stato, come se volessero farmi credere che era dei servizi del Mossad”. Dopo un’ora e venti di esame la deposizione del collaboratore di giustizia è stata sospesa e l’esame, verosimilmente, verrà completato nella prossima udienza prevista il 30 gennaio.
Da Antimafiaduemila