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09/02/2020 09:00:00

L’eredità di Otto e Mezzo. L'Anima e l'Eros dell’Arte

Stanotte sarà la notte della 92ª edizione dei Premi Oscar. E noi la attendiamo, nel solco del centenario felliniano, con il racconto di una delle pellicole più acclamate del regista riminese: , vincitrice del premio Oscar come Miglior Film Straniero nel 1964.

di Bianca Giacalone

Una soffocante confusione di eccentrici anziani affolla una serie di scatti impossibilmente stilizzati. Motivi caleidoscopio di suore in veli bianchi con piccoli ombrellini neri, si alternano con rapide immagini di patetici borghesi nei loro ridicoli costumi.

La cinepresa si muove drammaticamente, disperatamente tentando di catturare ciascuno di questi personaggi irrilevanti nel tentativo di dar loro una raison d’être con il suo potere filmico. “La cavalcata delle Valchirie” risuona fragorosa, inspirando un’aria di tragedia.

Le immagini sono tanto luminose da sembrare quasi radioattive. La luce naturale, tipicamente neorealista, crea un effetto invece puramente fotografico. Pur sembrando idiosincratico, è tuttavia perfettamente ragionevole per chi non ha mai vissuto l’esperienza dello scottante sole romano di mezzogiorno.

Usando il medium cinematografico alla sua estrema potenza (movimenti della videocamera da vero virtuoso, brillante uso di luce e colore e attenta composizione), Fellini gioca con la percezione sensoriale dell’osservatore. Dove siamo? Cosa sta succedendo?
Le terme all’aperto, un luogo di guarigione che dovrebbe emanare calma ed energia positiva, in questa lunga sequenza è invece configurato tramite un senso di malessere, di nauseante dispersione.

Tutto è troppo, dalla accecante luce che si riflette su ogni superficie bianca, alla mostruosa quantità di persone e i loro volti espressivi che fissano direttamente lo spettatore. Niente sembra avere senso.

Poi Marcello Mastroianni entra in scena. Osservatore esterno, la cui prospettiva abbiamo condiviso finora, fa un passo dentro al frame come un atomo della stessa confusione che lascia lui e noi così nauseati.

La musica si dissolve d’un tratto e lui abbassa i suoi scuri occhiali da sole.
Ciò che vede è la risposta a tutte le sue domande: una visione di purezza, bellezza e verità. Claudia Cardinale che fluttua verso di lui in un candido abito, offrendogli sacra acqua curativa con un sorriso amorevole.
Purtroppo, è solo un’effimera visione che Guido, il personaggio di Marcello e alter-ego di Fellini stesso, può solo ringraziare con un sussurro prima che essa sparisca, lasciandolo nuovamente al suo girone.

Guardare "Otto e Mezzo" significa guardare questa visione, ancora e ancora, apparire dal nulla come un rassicurante mago che ti invita al suo circo, una bellissima sconosciuta nella hall di un albergo o il fantasma di una persona amata. Restare senza fiato per un secondo, sentire le lacrime agli occhi e poi d’improvviso espirare e ritornare alla realtà.
Ma cosa significano queste immagini? È importante comprendere appieno il loro significato?

Lo studioso americano Donald P. Costello, nella sua pubblicazione “Fellini’s Road”, analizza a lungo questo quesito, collegando le misteriose e magiche immagini al precedente grande successo del regista, "La Dolce Vita" (1960), nel quale il protagonista, interpretato nuovamente da Mastroianni, nel punto più basso della sua perdizione, è incapace di interpretare il sorriso gentile di una giovane ragazza che potrebbe rappresentare la sua salvezza.
Il film termina indugiando sul primo piano della angelica ragazzina, lasciandoci pensare che non tutto sia perduto e che, nonostante il sempre più opprimente stile di vita moderno, “continui ad esistere qualcosa che valga la pena cercare”, usando le parole di Costello.

Il successivo capolavoro del 1963 sviluppa questo concetto, dando indizi su cosa possa essere questo “qualcosa”. Molti critici hanno notato un interessante accenno fatto nel film, svelando uno dei suoi tanti misteri.
In più di una scena, appare la simpatica formula magica “Asa Nisi Masa” senza nessuna reale spiegazione sul suo significato se non per una associazione visuale a dei quasi mitici ricordi di una infanzia serena e felice. L’espressione orecchiabile però rappresenta qualcosa di più: decifrando il gioco di parole, un po’ come il farfallino, si scopre che la radice è la parola “Anima”.

Sembrerebbe proprio questo al centro dei pensieri del protagonista, l’obiettivo del suo viaggio. Trovare la sua anima significherebbe accettare il mistero e la magia alla base dell’intuizione creativa, accettare il non-razionale, l’inesplicabile legame con le persone che amiamo.
L’anima può essere “tradotta” in immagini? Fellini dice sì.

"Otto e Mezzo" consiste proprio in questa ricerca senza sosta per quell’essenza nascosta delle cose, mascherata da processo creativo ma che in realtà è il vero senso dell’esperienza umana.

Obiettivo ambizioso per un film, che Fellini riesce brillantemente ad esprimere con semplici (e allo stesso tempo intricatamene inspiegabili) immagini simboliche, frutto del suo realismo poetico e della sua peculiare visione del mondo.
Un’opera gigantesca che si rivela un’esperienza visuale personale, privatamente sentita e condivisa universalmente attraverso generazioni, oltre l’apprezzamento intellettuale e artistico.
Oltre ogni logica interpretazione.

Le immagini del film hanno una “pura, intraducibile, sensuale immediatezza”, come dice Susan Sontag in uno dei suoi più famosi saggi sull’interpretazione. Per capirle non serve un’ermeneutica, ma un’erotica dell’arte, un processo di accettazione della bellezza, della poesia e del mistero, per imparare a vedere di più, sentire di più.
Questa è l’eredità che il magnifico Fellini ci ha lasciato, ed è imperativo oggi celebrarla per il 100esimo anniversario dalla sua nascita.
Grazie Maestro.