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15/02/2020 06:00:00

La lettura ci salverà dal male?

di Gianfranco Perriera

In un breve apologo del suo libro più noto, Gunther Anders raccontava di un ragazzino di sei anni che chiedeva alla madre come venissero prodotte oscurità e silenzio in tempi precedenti all’invenzione della radio e della televisione. Sono passati più di sessant’anni da quando l’autore de L’uomo è antiquato preconizzava un’epoca in cui “silenzio e mancanza di immagini sono diventate lacune e vuoti nel continuum del mondo dell’immagine”. E immagini e rumori impazzano ancora di più.

Quando ci accingiamo a parlare di lettura – attività, sia ben chiaro, che finché avremo occhi non potrà mai cessare, se non altro perché dovremo pur decodificare i segni grafici di un’etichetta o di un post su fb – è di questa nuova condizione che dobbiamo tener conto: del dilagare di immagini e messaggi e suoni che ci investono senza soluzione di continuità e che ci raggiungono ovunque ci troviamo. Di fronte ad una tale spropositata invadenza, di fronte all’iperlavoro a cui i tempi e la loro simultaneità ci costringono, la lettura sarebbe forse una pratica un po’ agée e vagamente snob?

Eppure andando in giro per librerie o passeggiando tra i mercatini dell’usato, le file di libri, a impilarle, raggiungerebbero vette vertiginose. Non s’è mai scritto e pubblicato quanto in questi tempi. Che come la torre di Babele fu eretta per confondere le lingue, tutte le pubblicazioni dei nostri giorni siano state accumulate per renderci analfabeti e anaffettivi? 

L’epoca attuale, in sostanza, suggerisce lo sprint e il disimpegno: cogliere l’occasione (magari anche in saldo) e far tesoro della sempre più diffusa precarietà dell’esistere quotidiano, senza dedicare tempo eccessivo a ciò che potrebbe distrarci dalla battaglia per un posto al sole. Muscoli tirati a lucido, prestazione superefficiente e niente testa tra le nuvole (o ideali che dir si voglia), questi i nuovi imperativi. Come dunque dedicarsi ad un’attività che necessita di tempo e che dal punto di vista superficialmente fenomenico introduce in uno stato di ozio, che si sottrae al continuum iperproduttivo e i cui frutti – ammesso che si colgano – matureranno in tempi lunghi? Sarà pur piacevole, per alcuni, questo dedicarsi ai segni grafici, ma di divertimenti l’evo ne consiglia di assai più frenetici e ghiotti. L’epoca invita ad inseguire il piacere e insieme sempre lo delude. Facendone così un miraggio che spinge all’invidia e al rancore. Chi cerca solo il diletto nella lettura – avvertiva Leopardi – finisce per annoiarsi. Leggere, dunque, sarebbe pratica da asceti o da secchioni? No di certo, ma non di un piacere effimero, “oblioso”, la lettura, parafrasando il poeta di Recanati, è talismano.

È, la nostra, l’epoca che viene dopo quella dei libri. Di libri, non del libro. Perché, seppur perdurasse e ingigantisse la metafora del libro che contenga ogni altro libro, non più uno soltanto era ormai quello in cui era riposto tutto il sapere. Non più uno soltanto era il codice teologico, etico e prescrittivo in cui una cultura riposasse interamente. Venne infatti il tempo in cui i libri si moltiplicarono. Vennero prima cercati negli anfratti più bui, emendati e collazionati. E presero a rispondersi e a criticarsi e a smentirsi come ad affratellarsi. E venne il libro enciclopedico che in più di un ventennio, malgrado la censura, seppe raccogliere, almeno in brevi articoli, le più svariate discipline e che seppe dare spazio anche alle pratiche artigianali, ai saperi “meccanici”. Per pungolare la più generosa curiosità. E venne il tempo in cui le biblioteche ambulanti attiravano acquirenti in ogni plaga. Sembrava davvero che il sontuoso sogno della Biblioteca d’Alessandria – dei cui lettori e dei loro modi nulla in effetti, curiosamente, sappiamo – potesse riedificarsi in dimensioni mondiali. Un mondo di libri per un mondo di lettori era quello che si profilava all’orizzonte. Ma mentre le promesse dell’aude sapere finirono per deludere - invece che all’uscita dalla minorità condussero gli umani alle più strazianti carneficine - dilagò rutilante, inarrestabile l’immagine in movimento e il sonoro in mondovisione. In questi ultimi anni, forse, una rinnovata cultura della video-oralità torna a diffondersi per il mondo.

A ben pensarci non è per niente un caso che la lettura solitaria abbia accompagnato e supportato prima l’interrogarsi su, poi la formazione - con i numerosi dilemmi che ne seguirono – di quell’entità che chiamiamo coscienza personale, di quella maschera, in cui ambiamo riconoscerci, che diciamo persona. Non ad una mera passività – quella in cui rischiamo di precipitare quando il mondo ci giunge preconfezionato, a ritmi forsennati, non più soltanto in casa, ma ovunque ormai, negli apparecchi che ci circondano e negli oggetti che teniamo (o ci tengono?) in pugno – ci affidiamo quando leggiamo. Tra le pagine – cartacee o virtuali – di un libro ci mettiamo in viaggio non certo privi di conoscenza e di esperienza. A meno che non si voglia delegare tutto ad un’agenzia di lettura, come turisti svogliati e insipienti che si attenessero per intero ai percorsi e ai tempi dettati da un’agenzia di viaggio. La lettura è lo spazio della scoperta e dell’approfondimento, dell’interrogarsi a proposito del proprio sapere proprio in quanto non trova il lettore come tabula rasa da ricoprire con le sue parole. “La lettura ha un suo ritmo – scriveva Calvino – che è governato dalla volontà del lettore; la lettura apre spazi di interrogazione e di meditazione e di esame critico, insomma di libertà; la lettura è un rapporto con noi stessi e non solo col libro, col nostro mondo interiore attraverso l mondo che il libro ci apre”. Nella lettura non leggiamo soltanto le singole parole, ma le parole nel contesto della frase e la frase nel contesto dell’intero libro. Nella lettura non leggiamo soltanto le parole dell’autore, ma anche le interpretazioni che su di esso si sono stratificate, i libri che gli hanno risposto e quelli che l’hanno ignorato. Nella lettura non incontriamo soltanto la voce silente di un estraneo ma vi facciamo risuonare la nostra, il nostro mondo interiore, il nostro pensare e il nostro sapere.

In tempi di disinvolto caos, la lettura è, allora, un tempo di raccoglimento che apre all’alterità, rendendoci responsabili verso l’altro e verso noi stessi. “La letteratura – scriveva Tzvetan Todorov, ma potremmo far valere questa asserzione per ogni scrittura densa di significato - apre all’infinito questa possibilità di interazione con gli altri e ci arricchisce perciò infinitamente […] la letteratura permette a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano”.  La lettura ci scansa dal presentarci vuoti e docili al vento di un’epoca.

La lettura ci salverà dal male? Ci proteggerà dal precipitare nel vizio e nella banalità più ottusa e becera? Mai abbandonarsi a facili ed orgogliose certezze. Neanche quando farebbe bene al cuore. Se un testo scritto e la letteratura in primis è artificio – come assicurava, per esempio, Manganelli – dove convivono a braccetto il sogno e l’incubo, la gioia e il dolore, l’assassino e l’angelo, se ne potrebbe dedurre che la lettura può aprir la mente e il cuore alle peggiori nefandezze come alle più gentili aspirazioni. Del resto, si può esercitare la lettura su Mein Kampf come sulla Critica della Ragion Pratica o su I Fioretti di San Francesco. Per questo, probabilmente, Platone temeva l’inerte consegnarsi della parola scritta. E per questo, checché se ne dica, occorrono i maestri.

Eppure di una cosa, mi arrischio a dire, si può esser certi. Quanto più dei testi scritti sapremo prenderci cura, quanto più sui loro caratteri sapremo tenere aperti gli occhi (della faccia e della mente), quanto più sapremo ascoltarli e interrogarli e interrogarci, tanto più la nostra coscienza ne acquisterà in conoscenza e responsabilità. Qualsiasi grettezza sarebbe deposta, e adattarsi alla menzogna, sguaiata, indifferente e violenta, sarebbe un esercizio di tradimento, in primo luogo di se stessi. Le buone letture sono un curioso specchio: ci vedi gli altri e anche te stesso. Ci vedi quel che manca al mondo per essere un po’ più giusto. O ci vedi il tuo ghigno sconcio, quando, nonostante quel che hai letto, ti concedi, indifferente o rancoroso, alla meschineria e al malanimo.