Oggi inauguriamo una nuova rubrica, I vecchi e i giovani, che verrà dedicata alle riscoperte di autori "sommersi" e fuori circuito e alla segnalazione di esordienti di grande talento. Siamo felici di cominciare con una recensione-ritratto di Giuseppe Antonio Borgese, tra i maggiori intellettuali europei del Novecento, da tempo ingiustamente trascurato.
di Marcello Benfante
Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952) è uno di quegli scrittori scomodi e inassimilabili sui quali storicamente si riversa uno strano malanimo della cosiddetta intellighenzia. Nel suo caso si tratta di un diffuso atteggiamento ostile o denigratorio, sminuente o escludente, che, seppure con diverse e perfino opposte motivazioni, ha decretato un rifiuto quasi concorde, fatto soprattutto di diffidenza e altezzosi pregiudizi.
Sciascia osservò amaramente che non solo “i fascisti volgarmente lo odiavano”, com’era ovvio, ma lo detestava anche La Ronda, lo disapprovava Croce, ne diffidava Tilgher, lo ignorava “con una sufficienza addirittura derisoria” perfino Gramsci. E su tanti altri, in vario modo compromessi con il Regime, a partire dalla classe ignava degli accademici, gravò per lungo tempo uno di quei silenzi che si definiscono tombali.
Eppure, scrive altrove Sciascia, “per chi sappia guardare con sereno giudizio lo svolgersi della cultura italiana dai primi anni del secolo alla seconda guerra mondiale, Borgese ne è uno dei più grandi protagonisti: come narratore, come critico, come esempio di vita”.
Ed è forse proprio con quest’ultimo aspetto della sua figura intellettuale, cioè l’esempio morale, così indipendente e categorico, che si spiega l’avversione antica di tanta parte della cultura italiana, pervicacemente refrattaria all’assunzione di responsabilità individuali.
Lo scenario oggi appare in buona sostanza emendato, anche se ancora alcune riserve sulla statura autorale di Borgese non si sono del tutto estinte e resistono per una sorta d’inerzia critica o d’inestirpabile diffidenza.
Ben venga dunque l’assai opportuna riedizione de Il Pellegrino Appassionato (Avagliano, 2019, pagine 422, euro 22) a cura di Gandolfo Cascio e Gandolfo Librizzi, che ci consente di tornare a riflettere su un testo fondamentale dell’opera dello scrittore di Polizzi Generosa (“da certi punti di vista il migliore dei miei libri”, affermò Borgese).
Si tratta di un libro difficilmente collocabile in una categoria di genere. Apparso originariamente per Mondadori nel 1933, Il Pellegrino Appassionato si compone infatti di cinquantuno racconti, suddivisi in quattro sezioni, che tuttavia assumono la forma unitaria di un ampio romanzo sinfonico.
“Spero fortemente che al titolo Il Pellegrino Appassionato non si aggiunga il sottotitolo Novelle che sciuperebbe”, scriveva Borgese in una lettera ad Arnoldo Mondadori del 25 marzo 1933.
Non per una presunta minorità della novella, che è la forma felicissima di tanta parte della nostra migliore letteratura, ma per ragioni poetiche di disegno compositivo.
L’intento ideativo da cui scaturisce Il Pellegrino Appassionato era infatti unitario e concepito in modo da realizzare una sorta di euritmia (“il libro più armonioso della mia vita”, lo definisce Borgese in un’altra sua lettera all’editore).
Non romanzo, quindi, nel senso tradizionale di una narrazione incentrata su un protagonista intorno a cui si sviluppa una trama e convergono in vario modo, diretto o indiretto, altri personaggi. Bensì romanzo nel senso di una fluidità tematica, musicale, di tensione psicologica, morale; di un’unità profonda, essenziale (anche nel suo essere intriso di riferimenti autobiografici) che rimanda a un percorso di conoscenza e di coscienza, a un itinerario erratico, dantesco e insieme picaresco, di esilio, di ricerca sentimentale e intellettuale.
Romanzo, cioè, nel senso di una partitura plurale e corale che si può e deve ricondurre al fuoco tematico della peregrinazione emozionale: “Esso si può leggere tutto di seguito e ogni componimento continua, come si suol dire, musicalmente il precedente”, spiega ancora Borgese.
A questo afflato generale, tuttavia, corrisponde un uso sistematico della misura breve, del passo svelto, che raramente si allunga oltre una manciata di pagine. È la cadenza regolare, misurata, che quasi richiama quella di un articolo di giornale, quella con cui Borgese accompagna il lettore lungo i suoi vagabondaggi.
Ed è un vagare caratterizzato da una particolare attenzione alla natura, alle sue creature viventi, tutte nominate, dall’albero o al fiore fino alla bestiola più debole e spaurita.
Meno precisa, bensì tipizzata come una sorta di scenario teatrale, l’attenzione ai luoghi sociali: delle città spesso si trascura o tralascia perfino il nome, come un particolare irrilevante.
Sovente il testo si fa mappa reticente di un territorio geograficamente contrassegnato, ma narrativamente laconico, che talora assume una vaga venatura fiabesca e dal realismo lambisce il simbolo.
Non a caso sono quasi sempre più veri e più belli i racconti legati alla terra, alla campagna (splendido quello d’apertura, La talpa, con il suo drammatico senso di bellezza e di morte, di strazio e di vita).
Nella scrittura di Borgese spicca un preciso sguardo sul paesaggio in cui la descrizione procede di pari passo con le sensazioni. La sua è una prosa collocata nel tempo e nello spazio con una sorta di fenomenologia del panorama. Il lettore è costantemente reso edotto sulla stagione, le condizioni atmosferiche e climatiche, l’ora, la luce, spesso crepuscolare, con una sorta di naturalismo sensuale.
Borgese illustra i suoi racconti con rapidi tratti e pennellate, chiazze di colore, come fossero bozzetti o acquarelli. C’è poca trama in essi, quel poco intorno a cui raggrumare una storiella, un ritratto, una memoria. Ma il quadro non è mai statico, bensì reso vibrante da una sorta di passo di danza, di leitmotiv musicale, di insorgere del profondo, del sogno, di estatici miraggi (“chiese grondanti di musica e d’oro, dove le statue dei santi pare che ballino”).
Quella di Borgese è una prosa solo apparentemente semplice, uniforme, un abito di buona fattura la cui eleganza consiste proprio “nella mancanza di ogni ornamento”, d’ogni fregio e fronzolo superfluo. In realtà il pregio di questa scrittura sta “nello slancio del taglio” e nella “qualità della stoffa”, nella sua intrinseca nettezza morale e formale. E nel suo essere pervasa di visioni e apparizioni, risonanze e rimembranze, tremori e speranze, echi, epifanie, premonizioni, che fanno del testo un palinsesto emotivo lacerato da ossessioni e tormenti in cui si scorge il solco doloroso delle ferite della Storia (come nel bellissimo Federico MÈ•ller, uno dei momenti più alti della raccolta-romanzo).
Sono voci dell’anima che si mescolano a effluvi, aromi, flussi dell’essere multiforme. Allo stesso modo il tono prevalentemente elegiaco, malinconico, si converte talora all’umorismo, al paradosso, all’aneddoto grottesco, a tratti lacerato dalla battuta sarcastica, dal motto di spirito, da situazioni beffarde, dall’emergere dell’assurdo, e dal gusto (tutto siciliano, ma scevro da pirandellismi) del sofisma, dell’arguzia filosofica, dell’argomentazione capziosa e sottile.
Ne risulta uno stile mosso, pur nella sua compattezza e compostezza. Come un gran mare, sul quale “il sole non è ancora tramontato”, apparentemente immobile e imbelle, ma che a momenti è travagliato da onde o correnti, increspature e gorghi, e minaccia (o teme) di infrangersi sugli scogli aguzzi e atroci della Commedia umana.