di Marcello Benfante
“Ho dovuto mettere ordine nel mio mondo, gettarvi luce, prima di tutto per me stesso.”
V. S. Naipaul, Leggere e scrivere
Come affrontare un discorso, per quanto disorganico e approssimativo, intorno allo stato attuale della critica letteraria? Si tratterebbe, infatti, nientemeno che di una critica della ragion critica (pur senza scomodare Kant).
Il tema è così complesso e spinoso che non si sa nemmeno da dove cominciare ad approcciarlo.
Comincerò allora da un aneddoto, banalissimo, comunissimo, quasi una barzelletta.
Molti anni fa avevo pubblicato un raccontino di cui, non dico che andassi fiero, ma almeno non provavo il solito imbarazzo. Per strada, casualmente, incontrai un piccolo editore e libraio palermitano e mi sembrò un gesto cortese e innocente il fargliene dono. Ma il commento con cui egli accolse l’omaggio fu piuttosto acido: “Oggi scrivono tutti!”. “Il guaio è che tutti editano!”, gli risposi un po’ piccato.
Un “botta e risposta” un po’ infantile, lo ammetto, e me ne assumo le responsabilità, chiedendo venia, almeno per la parte che mi attiene.
Acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, e quello scambio di battute, tra scortesia immotivata e puerile risentimento, si è purtroppo rivelato profetico.
Avevamo ragione entrambi, infatti, e i tempi ce lo avrebbero confermato. Il numero degli scrittori (o scriventi) si è dilatato a dismisura. È divenuto, diabolicamente, Legione. Di pari passo si è moltiplicato quello degli editori. Anzi, le due categorie si sono sviluppate e avviluppate in modo sempre più promiscuo fino a identificarsi quasi del tutto o quanto meno a divenire l’uno l’immagine distorta dell’altro.
Se lo scrittore è diventato l’Uomo Qualunque, anche l’editore ha visto mutare e svilire la propria funzione: è diventato in molti casi uno stampatore prezzolato, il mediocre parassita di una misera fiera delle vanità che egli alimenta con suadente piaggeria.
Del declino del libraio è inutile dire, specie in un’epoca che ormai fa a meno degli stessi stessi negozianti, insieme alle loro obsolete botteghe. Nell’era di Amazon il librario è diventato in certi casi uno che domanda se Kafka si scrive con la kappa (e anche questo, purtroppo, è un aneddoto vero).
Conosco diversi librai molto competenti, che basano il loro lavoro su una solida cultura, su importanti letture e su preziose doti intellettuali. Ma la categoria, nell’insieme, tende sempre più ad assumere i tratti mediocri del commesso dei grandi magazzini. E d’altronde, a loro scusante, la libreria stessa somiglia sempre più a un supermarket e ne ha mutuato le strategie.
Qualcosa invece occorrerà osservare sull’esautoramento inesorabile del critico letterario. Una specie estinta o pressoché, si potrebbe dire. Il cui ruolo sociale pare soppiantato da nuove figure emergenti dal marasma chiassoso dei Social.
Naturalmente, il fenomeno è anche liberatorio, in un certo senso, e forse ha perfino un che di rivoluzionario (se non altro, tecnologicamente). Qualcuno al riguardo ha perfino scomodato la Riforma protestante e il Libero Esame! Un po’ come accostare il Sacerdozio universale al Critico Globale.
Insomma, oggi tutti sono critici, direbbe il mio “amico” editore. E anche stavolta avrebbe ragione.
Ma, sarcasmi a parte, è difficile guardare questa trasformazione con ottimismo e con fiducia. Tra i cattedratici e i giornalisti, per quanto odiosi e inaffidabili entrambi, da un lato, e il caos approssimativo e balordo dei blogger e degli influencer, dall’altro, è del tutto insensato propendere per i secondi, che sono mediamente i più sprovveduti, i più cialtroni.
Certo la spocchia degli accademici - troppo spesso pomposi e saccenti, armati di vana retorica e di esangue erudizione - è talora insopportabile e ingiustificabile. Così come è priva di credito e fondamento, sulla stampa quotidiana, la critica di certi improvvisati recensori, frettolosi e sciatti, che arrivano alla letteratura dalla cronaca e vi applicano la stessa “scienza” con i medesimi criteri.
Ma questo è anche il risultato devastante di uno sdoganamento sociale e di un complessivo appiattimento del livello culturale.
Tramontata fatalmente (e forse per fortuna) la figura dell’intellettuale, che oggi assume sempre più apertamente l’aspetto e il ruolo dell’opinion leader televisivo, del l’onnipresente e onnisciente frequentatore dei talk-show, viene da chiedersi cosa rimane oggi del critico.
Qual è oggi, in particolare, la funzione del critico letterario? Ma ancora prima, che cos’è un critico letterario? In cosa consiste la sua “specializzazione” che sempre più spesso si mette in discussione? E cosa intendiamo, in generale, per critica letteraria? È un genere, una disciplina, una convenzione, un’arte? Un che di utile (culturalmente, socialmente, politicamente, economicamente) o una vuota magniloquenza, un pleonastico orpello? La letteratura può fare a meno della critica? Il lettore può del tutto e sempre prescinderne? E l’editore, il libraio, la scuola, il giornalismo ne hanno ancora un qualche bisogno? Insomma, la critica è morta?
La tentazione di sgomberare il campo da tutti questi dubbi con apodittiche affermazioni, con perentori sì o no, è fortissima. Ma di simili impulsi dovremmo piuttosto diffidare. Anche perché, a lasciarsene influenzare, verrebbe da considerare che se la critica è davvero morta, allora, a maggior ragione, bisognerebbe gridare viva la critica! Perché solo a partire da una critica viva si potrebbe ridare respiro a una letteratura asfittica. E si potrebbe ridare un senso a quel dibattito di cui la letteratura e la cultura tutta si alimentano e vivono.
Se la critica è davvero morta, insomma, la letteratura non può certo stare bene.
Tutti conoscono (e spesso citano) il quadro “Escapando de la critica” del pittore spagnolo Pere Borrell del Caso (1835-1910). Si tratta di un tipico trompe-l'œil in cui si scorge un ragazzo colto nell’atto furtivo e felice di saltare fuori dal quadro che lo raffigura e lo contiene. L’illusionismo pittorico della rappresentazione apre una situazione paradossale di implicite e feconde contraddizioni. Ma uscire fuori dal proprio contesto, sottrarsene e guardarlo da un punto di visto esterno, è un doveroso atteggiamento autocritico che è alla base di ogni serio discorso critico.
La fuga dalla critica che suggerisce Pere Borrell del Caso, è generalmente letta come un agile, picaresco, monellesco togliersi dagli impicci di una cultura censoria che ciancia e inibisce l’artista e i suoi slanci creativi.
Ma proviamo a interpretare l’evasione da un altro punto di vista, da un’opposta prospettiva.
E se fosse il critico a dover fuggire? O meglio, a voler fuggire. Se il suo lavoro corrispondesse al tentativo e al desiderio di uscire dagli schemi, dalle inquadrature, dalle cornici ideologiche?
Sto immaginando ovviamente un critico discolo, scattante, scamiciato, leggero, libero e disponibile al gioco. Un critico acrobata e saltimbanco, un po’ Lazarillo e un po’ lazzarone, un po’ guaglione e un po’ Rocambole, a cui mi piacerebbe, mi piacerebbe tanto, somigliare!
Purtroppo non gli somiglio affatto. Ormai ho assunto - ahimè - una certa pesantezza, certe cattive abitudini un po’ sclerotiche, una certa rilassatezza rinunciataria.
Don Chisciotte non abita più dalle mie parti, anche se talvolta (assai raramente, in verità) ne prendo in prestito l’Elmo di Mambrino per tentare qualche maldestro (e malriuscito) pelo e contropelo.
A essere sincero (e questa sarebbe la prima dote di un critico) io non sono un vero critico. Non posso vantarmi di questo titolo, tanto disprezzato quanto ambìto.
Mi manca la costanza (e molto altro) per esserlo. Mi limito occasionalmente a esprimere un giudizio su un libro. Più raramente su un autore.
Mi si potrebbe allora definire un critico a ritroso. Anche nel senso di una certa mia ritrosia. Più che la novità, mi attrae la riscoperta. Che è sempre un fatto personale, soggettivo, in qualche modo interiore. Cioè qualcosa di attinente a una dimensione spirituale, ancorché in senso lato.
Il viatico della critica è fatto soprattutto di qualità morali.
Il bisogno di fare chiarezza, in primo luogo. Di capire un testo, profondamente, intimamente. Di farlo capire ai lettori. Cioè di farsi capire.
Più che per la fuga dalla critica o per la fuga del critico, io propendo per il paradosso speculare del critico che entra nel quadro (o nel libro). Che ne viene risucchiato, fagocitato, trascinato negli abissi e infine, come Giona, risputato dalla balena su un qualche lido abitabile.
Fondamentalmente, il critico è il suo coraggio. E la sua onestà. Quella che si dice l’onestà intellettuale (che è poi l’onestà tout court).
E in subordine la pazienza, la laboriosità, l’attenzione di cui è capace, e con le quali ha costruito nel tempo la sua cultura, ha forgiato i suoi strumenti professionali.
Tuttavia, ciò che contraddistingue il critico, il vero critico, è sostanzialmente il suo intuito, una certa sua particolare sensibilità (che d’altronde è, almeno in parte, il frutto di un’esperienza e di una sapienza diligentemente costruita nel tempo).
L’oggettività assoluta dell’atto critico è una mera utopia (e come tutte le utopie risulta infine nefasta). La critica è sempre in buone sostanza di “gusto”. Cioè relativa, soggettiva (che è cosa ben diversa dall’essere arbitraria, almeno nel senso corrente e comune dell’aggettivo).
Ora, l’intuito (proprio come il coraggio per Don Abbondio, e l’esempio non potrebbe essere più calzante) è una qualità ineffabile che chi non la possiede non può darsela da sé.
Ovviamente, esiste una critica a-critica, tutta risolta in notizie editoriali o para-editoriali, che oggi va per la maggiore. Una critica superficiale, estroversa, per così dire. Che, zoppicando, si regge su precarie stampelle-bandelle, si affida preferibilmente alle interviste e si appoggia al parere altrui (a cominciare da quello dell’autore su se stesso).
È una critica, evidentemente, che ha rinunciato a se stessa, alle profonde ragioni del suo rischio, della sua scommessa. Ma si è sbarazzata perfino delle sue naturali incombenze e talora perfino della più elementare deontologia. Ha dismesso i ferri del mestiere, ha disertato i suoi impegni.
Né d’altronde poteva verificarsi esito diverso e migliore con gli attuali ritmi editoriali.
Oggi la condizione del critico (del critico a-critico) somiglia a quella dell’operaio Charlot alle prese con la catena di montaggio. La macchina gli ruba inesorabilmente e ferocemente il tempo, fino a sopraffarlo, a ridurlo allo stato subalterno di un proprio ingranaggio funzionale.
La forsennata iperproduttività della macchina editoriale è ormai tale da costringere un critico mediamente coscienzioso e scrupoloso a uno stress insostenibile e infine all’alienazione totale.
Questo non è un aspetto secondario dell’impossibilità della critica odierna. La critica come transito, come medium tra opera e fruitore, è diventata una vera e propria mission impossible.
Ovviamente, il critico a-critico esce spesso da questa impasse nel modo più sbrigativo e radicale: non leggendo ciò di cui farà una stereotipata recensione.
Ed è vero che certi libri non occorre neanche leggerli per sapere se sono brutti, ma bisogna leggerli comunque, fino all’ultima riga, per recensirli e per affermare che sono brutti per davvero. Né mi ha mai convinto quel che affermava Oscar Wilde, ossia che il vino cattivo si avverte al primo sorso e non occorre berlo tutto per giudicarlo (e analogamente il libro cattivo si scopre già alle prime pagine).
Questo criterio dell’assaggio e dello sputo varrà forse per alcuni libri irrimediabilmente brutti, pericolosamente tossici, ma risulta del tutto inutile per quelli belli o mediocri, per quelli graziosi o bruttini, o per tutti quelli che contengono qualcosa di interessante, sia pure in minima parte, che talora è posta più o meno strategicamente proprio in coda, come contravveleno, e che tocca proprio al critico (a chi altri se no?) individuare e valorizzare, magari contestandola con sensate obiezioni.
Il modello a cui alludo è quella critica “servile” di cui parlava Cesare Garboli. Servile non nel senso del servilismo, dell’asservimento, della genuflessione cortigiana (che è il senso di marcia, ovviamente trionfale, di gran parte della critica operante). Bensì nel senso squisitamente garboliano di una critica al servizio del testo. Al servizio del lettore. Al servizio della verità.
Al piacere del testo ci educò Roland Barthes (benché alcuni di noi lo praticassero già fin da bambini e sempre rimasero piuttosto freddi nei confronti degli eccessi strutturalisti). Ora dovremmo invece rieducarci ai doveri del testo. Doveri plurali e antidogmatici, nei riguardi del testo e del lettore, sui quali si fonda lo specifico mandato incarico del critico.