Narratrice dell’escavazione e della sottrazione, Maria Attanasio, forse a ragione della sua originale vocazione lirica, ha praticato in modo continuo una forma di romanzo potenziale, talora frammentato in versi, tutto racchiuso intorno a una figura e a un fatto, centrali e potenti, fulgidi e struggenti.
Se n’era già accorto Vincenzo Consolo, che nella sua lungimirante introduzione a “Correva l’anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile” (Sellerio, 1994), esprimeva, concludendo, questo icastico e preciso giudizio: “Romanzo di cui qui Maria Attanasio ha voluto solo tracciare, con delicatezza e poesia, il preludio, orchestrare il tema principale”.
Di questa evocativa parsimonia ce ne rendiamo più esattamente conto adesso che sette suoi racconti vengono assemblati in una silloge particolarmente compatta, sia a livello tematico che espressivo, come a suggerire al lettore un’identità romanzesca, ancorché sfaccettata in un susseguirsi concatenato di capitoli autonomi.
“Lo splendore del niente e altre storie” (Sellerio, pagine 219, euro 14) si addensa e converge sul leitmotiv di un’oscurata genealogia delle madri, immemore e tuttavia provvidenzialmente recuperata alla memoria e alla narrazione.
Si tratta sempre di donne ribelli e non rassegnate a un loro supposto e imposto destino. Di donne che illuminano, nel Secolo dei Lumi o nel suo approssimarsi, la condizione umana con le loro fulminanti rivelazioni, talora salvifiche, talaltra mortifere, di fiera autoaffermazione o di altèra autodistruzione. Donne che lacerano con scandalosa tenacia il velo della storia e dei pregiudizi sociali. Che scuotono il loro mondo con la forza di un terremoto.
E proprio un terremoto, quello dell’11 gennaio del 1693, infernale giorno del giudizio, è infatti l’evento catastrofico che spiega in chiave metaforica il subbuglio, il soqquadro, il sovvertimento introdotto dall’avvento della donna nell’ordine maschile.
Maria Attanasio, “scrittora” versatile, in sapiente equilibrio tra reperti microstorici e ineffabili vibrazioni dell’anima, presta ascolto e voce a una galleria di donne disubbidienti e quasi inconsapevolmente rivoluzionarie, che rispondono a una imperativa vocazione la quale impone loro di dipingere, cantare, lavorare come braccianti, collocarsi al limite tra il maschile e il femminile, con androgina ambiguità, con muliebre coroplastica e “hominigno” sembiante. Tanto da scatenare la diffidenza delle autorità, i furori dell’Inquisizione, la paura collettiva del satanico e del pandemonio.
È il fantasma dell’eros, della libertà, dell’uguaglianza ad agitarsi, tra estasi ed epilessie, in queste donne, nel loro esemplare rifiuto, e a inquietare le masse ignoranti e superstiziose, insieme ai gelosi detentori del sapere e del potere.
A questi fantasmi, che sono forme ctonie della rivolta, si aggiunge quello della scrittura, nelle forme cronachistiche (i “commoventi ricercatori di glorie civiche” lodati da Benedetto Croce) o nelle forme immaginifiche e creative, tese a colmare “il silenzio del vissuto che nessun archivio registra e tramanda”.
Maria Attanasio interpreta questo demone curioso e amoroso della ricerca e della ricomposizione delle narrazioni: del senso, della testimonianza, dello splendore di vicende sepolte dalle macerie della storia.
A partire dalla sua antica e magnifica Caltagirone, sontuosamente appollaiata su una Sicilia nebbiosa e quasi monocroma: la Calacte stratificata, delle più diverse e lontane civiltà, della casbah e dei carruggi, della semi-finzione letteraria; “argillosa città” di vasai e di scritture, interpretata come luogo del caso, della scelta e del destino. Luogo, insomma, eletto e fatale a cui si si aderisce liberamente o visceralmente nella sublimazione dell’esistenza e dell’arte.
“La vita (…) è bella solo se raccontata. Dentro le parole non c’è freddo, né carestia, né paura: gli uomini possono soffrire senza dolore, mangiare senza pane, morire senza morte”, sostiene lo scriba e ceramista Giacomo Polizzi, diarista civico (sulle orme ideali del Mongitore), dissidente dai pensieri quasi luterani, realmente esistito (al secolo Francesco Polizzi).
Disvela, cioè, il vero e il bello nel suo farsi parola, scrittura, testo; nel suo sottrarsi all’oblio, al fuoco perenne del Grande Archivio, per divenire racconto, poesia, opera, e addentrarsi, perdersi e ritrovarsi in quella ignota “foresta senza più sentieri”, simbolo della letteratura, di cui parla Marguerite Yourcenar.
Marcello Benfante