[Oggi, 23 aprile, è la giornata mondiale del libro e del diritto d'autore. Noi abbiamo voluto festeggiarla con questo articolo di Gianfranco Perriera sui Veleni di Palermo di Rosario Lo Duca]
di Gianfranco Perriera
Tempi davvero infelici questi, mentre ci asserragliamo nelle case a difenderci da un velenoso virus, che intanto, invisibile, continua a falcidiare vite umane. Tempi stridenti, in cui facciamo comunità sui social o affacciati sul balcone e ci guardiamo in cagnesco quando siamo costretti a scendere per via. In cui si dà addosso a chi fugge dalle zone rosse, senza fermarsi un momento a pensare a come potrebbero fare i fuori sede a rimanere in appartamenti dove probabilmente convivono in tanti, senza riflettere su come potrebbero sostentarsi in un frangente in cui non possono, probabilmente, lavorare.
In questi tempi calamitosi mi è tornato in mente, tra i tanti altri, un libretto assai agile, I veleni di Palermo, di Rosario La Duca, pubblicata da Sellerio nel 1970. Ingegnere e storico (soprattutto delle peripezie e della topografia del capoluogo siciliano), La Duca con questo testo si concesse un curioso divertissement: narrare della pratica della morte “cum veleno propinato”, così come avveniva a Palermo tra il XII e la prima metà del XIX secolo.
Non dei veleni dei veleni “veri, i lenti e sottili veleni del vivere a Palermo”, narra il libro, come scriveva Sciascia nell’intelligente introduzione, ma del “veleno dei casi che generalmente si dicono sordidi”.
Triviali, dozzinali, brutali nell’oscenità degli interessi egoistici che li muovono sono questi delitti tramite veleno, che a Palermo furono perpetrati. Sordidi, appunto, e commessi specialmente all’interno delle mura domestiche. Naturalmente anche negli scontri di e per il potere, il veleno si mesceva nelle coppe o si mischiava agli intrugli medicinali come alle pietanze più succulente. Ma di tali evenienze, La Duca, che scrive spulciando e chiosando cronache e documenti storici, può riportarne ben pochi. Che a Palermo i potenti fossero particolarmente bravi a non farsi scoprire o che preferissero mezzi più eclatanti (lupara, pistole, strangolamenti) come la storia più recente ha dimostrato, non ci è dato, comunque, sapere.
Il più noto degli episodi riportati nel libro è quello, risalente all’epoca normanna, che vide scontrarsi l’ammiraglio Maione e l’arcivescovo Ugo. Dove, a confermar la regola che il veneficio non era roba di potenti, l’avvelenamento non riuscì. Maione tramò per far giungere a destinazione una coppa traditrice, ma Ugo, che in quanto arcivescovo, evidentemente, ne sapeva una più del diavolo, lo sgamò. E per ripagarlo lo fece uccidere, in un agguato, dalla spada di Matteo Bonello. Negli altri due casi rammentati, in uno paga il fio soltanto l’esecutore, mentre il mandante rimane impunito “come la maggior parte dei mandanti d’ogni tempo”; nel secondo, del colpevole non si ha traccia. Che i cronisti – suggerisce l’autore - abbiano un occhio di riguardo per il potere?
Certo il veleno si presta bene alle congiure e risulta assai utile quando ai potenti è necessario togliere di mezzo quelli che delle loro tresche sono i complici sottoposti. Lo Duca ce lo ricorda citando l’episodio del bandito Rizzo Saponara che “si andava alla corda, averia chiamato a molti. E quando sbarcò fu attossicato con un pomo”. Era il 1578, e questo episodio permette a La Duca di richiamare l’unico caso a lui quasi coevo: l’omicidio per avvelenamento da stricnina mescolata a caffé, di Gaspare Pisciotta, avvenuto nel carcere dell’Ucciardone il 9 febbraio 1954.Anche in quel caso, i mandanti restarono sconosciuti. La storia si ripete, dunque? Beh, in questo coacervo di fatti ognuno può ritrovare quel che vuole, suggeriva Paul Valery. Le brutture, però, sono sempre simili.
Per buona pezza dell’età moderna, il veleno fu arma prediletta dei potenti. Ne sapeva più di qualcosa il Valentino, tanto caro al Machiavelli. Ne sapeva più di qualcosa anche Amleto. Del resto era quella l’epoca in cui la morte per veneficio, sulle scene, era considerata meno violenta di ogni altro omicidio. Ma a Palermo, dobbiamo rassegnarci, al potere, stando ai documenti, il veleno non andava giù.
I sordidi delitti, tramite pozione avvelenata, invece impazzavano nelle vite dei comuni mortali. Con il veleno le mogli – le donne sembrano usarlo in netta maggioranza, del resto non potrebbero, certo affidarsi alla forza bruta – si liberavano dei mariti e i mariti si liberavano delle mogli. Negli spazi familiari, perciò, si cumulavano le peggiori atrocità (del resto ancora oggi la violenza sessuale, per citare un esempio, avviene in maggior misura tra le mura casalinghe). Si dipana così, dalle pagine di La Duca, una piccola galleria di torbidi personaggi, per lo più donne, che solo nella pratica di fattucchiera o avvelenatrice trovavano scampo alla miseria e all’emarginazione. Fra esse spiccano Giulia Tofana, con la sua acqua avvelenata, che a quanto pare sfuggì alla giustizia e, soprattutto, Giovanna Bonanno, la vecchia dell’aceto (“la vecchiaccia”, la definisce più volte l’autore, su di lei soltanto lasciandosi andare a un epiteto sì dispregiativo), che nell’aceto, appunto, nascondeva l’arsenico e che, al contrario della Tofana, sulla forca finì i suoi giorni. Inquisizione - che regolava i processi passo dalla tortura alla assistenza spirituale fino all’esecuzione – e potere secolare avevano buon gioco ad addossare alla povera gente tutte le accuse di veneficio, del resto con la tortura, si sa, si fa confessare ciò che si vuole a chi si vuole. Ma la lieve, quasi disincantata scrittura di La Duca ci avverte anche, che, là dove la povertà e la mancanza di parità la fanno da padrone, o si soccombe o si ricorre al delitto.
Sia quando lessi il libro in gioventù, sia adesso, che l’ho ripreso in mano, questo lieve divertissement mi pare scritto con la cura, quasi, di un entomologo e la perizia venata di maliziosa ironia di un documentarista. Di umani parla, ma lo fa come mostrandoci la naturale e cruda vita di insetti, che si danno parecchio da fare, ma a cui certo non si può’ chiedere una ragione etica del loro agire. In uno dei tutto sommato rari interventi di commento alla narrazione, comunque, La Duca elenca le cause che favorirono una simile dissipazione morale: “l’intrigo politico, lo strapotere dei nobili, la corruzione esercitata dai ricchi, l’abbrutimento di alcune classi sociali, l’ignoranza, la miseria”.
Nello stato di natura, mi suggerisce il sornione distacco della scrittura di La Duca – forse Hobbes una qualche ragione l’aveva – gli umani sono spinti da grezze passioni, il loro tempo è avvelenato e s’imbestiano in una guerra l’uno contro l’altro, se non altro per sfangarla. E’ uno stato di diritto che allora gli umani devono e spesso hanno cercato: solo lì è dato vivere nella giustizia e nel rispetto della dignità di ognuno.