di Marcello Benfante, con le tavole di Gianni Allegra
IV
IN CERCA DELL’UOMO
A Roma l’uso portava che anche ciò che un testimone deponeva di aver visto coi suoi occhi, e ciò che un giudice ordinava di sua più sicura scienza, era espresso in questo modo: Mi sembra. Mi si fanno odiare le cose verosimili quando mi vengono obbligate come infallibili.
(Michel De Montaigne, «Degli zoppi»)
Diogene, nell’antico mercato della Vucciria, era per tutti il Professore. Piccolo di statura, ma non esile, aveva ormai pochi capelli bianco-giallicci che portava lunghi, come la barba, foltissima e argentea. Gli occhi, penetranti e vivaci, erano di un grigio cangiante in azzurro, che insieme all’espressione dolce, comunicava un senso di profonda trasparenza spirituale.
Un po’claudicante, si appoggiava a un bastone da passeggio alla Charlot che certamente aveva visto tempi migliori. Ma la leggera zoppìa non gli impediva di essere piuttosto agile e veloce per la sua età.
Nonostante l’apparenza di reietto, era circondato dalla deferenza generale. Tutti, nel mercato, lo rispettavano e lo trattavano con devota benevolenza. Non c’era bancarella o bottega e putìa, per quanto ormai sull’orlo della chiusura, che non gli offrisse qualcosa: cibo, bevande, indumenti, tabacco per la sua pipa, quaderni e penne per la sua misteriosa attività di scrittore, candele, ombrelli e mille altri utensili. In cambio il Professore, in una specie di studiolo en plein air con una scrivania fatta di cassettine per la frutta accatastate, elargiva i suoi pareri, peraltro piuttosto ovvi nella gran parte dei casi, paludandoli con frasi altisonanti che li facevano apparire più profondi.
Un ragazzo di circa quindici anni, che sostanzialmente fungeva da segretario e factotum, regolava con ferrea disciplina il flusso di una ressa di persone che richiedevano al Professore un parere sulle più disparate questioni.
Nel breve periodo in cui aspettammo il nostro turno per conferire con lui, lo sentimmo proferire una serie di sentenze basate su luoghi comuni ma condite di espressioni colte e di un esoterico latinorum, presumibilmente incomprensibili al popolino.
A un padre che chiedeva un parere sull’entità della dote da assegnare alla primogenita che andava sposa disse semplicemente Melius abundare quam deficere. A un giovane che gli sottoponeva il caso di un affare rischioso in cui non sapeva che partito prendere rispose Audaces fortuna adiuvat.
E così via, a tutti ammanniva qualche pillola di saggezza classica (In medio stat virtus, Est modus in rebus, Errare umanum est, Ignorantia legis non excusat) con un tono ieratico e solenne in stridente contrasto col suo aspetto da accattone.
Ma la cosa incredibile è che tutti mostravano di capirlo perfettamente e di accettarne il responso con piena consapevolezza delle sue ragioni profonde.
Sicché il mio amico si convinse che il famoso Diogene fosse più o meno un astuto gabbamondo. Non cercai di dissuaderlo spiegandogli la sublime saggezza di quell’uso apparentemente banale del più elementare buon senso. Si sarebbe ben presto accorto da solo del talento ineguagliabile del Professore.
Arrivò il nostro turno di conferire ed esponemmo sinteticamente il nostro caso. Avevo portato i miei schizzi e Ferraù un dovizioso dossier. L’anziano consigliere non sembrò stupirsi della nostra richiesta di un parere su un affaire poliziesco. Dalle domande che ci pose, precise e pertinenti, ricavammo entrambi la netta sensazione che non fosse nuovo a questo tipo di consulenze.
Diede un’occhiata ai disegni, di cui lodò il tratto con mio grande compiacimento, mentre ignorò del tutto i documenti. Sembrò dare invece molta importanza alla via in cui il delitto era stato commesso.
- In via della Clessidra... molto interessante. Anzi, illuminante...
- In che senso, Professore?
- Oh, non fateci caso... è una mia mania... vedo simboli dappertutto.
- E in questo caso? Qual è il simbolo?
- La clessidra, ovviamente. Un simbolo peraltro chiarissimo, di simmetrica semplicità.
- E il significato di questo chiarissimo simbolo?
- Non so... la semplicità a volte può ingannare. E anche la simmetria è piuttosto infida. La mente, per esempio, corre subito alla ben più nota via dell’Orologio, per analogia. In fondo, la clessidra è un proto-orologio…
- E dunque?
- Ma… forse qualcosa che riguarda Leibniz, il suo Dio-orologiaio e l’armonia prestabilita. In un certo senso è vero che tutti gli orologi suonano la stessa ora. Devo rifletterci ancora un po’, non ho ancora chiaro qualche particolare...
- Solo qualche particolare? – lo canzonò il mio amico con un sorrisetto ironico tra le labbra.
Il Professore non fece caso al tono incredulo dell’investigatore (o apprendista tale). Inseguiva un suo pensiero recondito che sembrava affascinarlo.
Si distrasse un po’ notando la nostra scarsa dimestichezza con la tumultuosa vita della Vucciria, ancorché di molto scemata rispetto a un passato non del tutto remoto, tipica del ceto medio nato e vissuto nella parte borghese della città.
Un po’ anfitrione e un po’ cicerone, ci portò solennemente a zonzo per il suo amatissimo quartiere, tra riffe reboanti e abbanniate arabiche, intonate ormai a quasi esclusivo beneficio dei turisti, facendoci visitare il luogo ove sorgeva la casa natale del poeta Giovanni Meli, presso la chiesa della Madonna del lume, la via dei Cassari, in cui un tempo si trovava la bottega dei Gagini, l’ispanica chiesa di S. Eulalia dei Catalani, la Mostra marmorea del Genio di Palermo, nume senile e barbuto per il quale disse di provare una profonda devozione, quasi pagana.
- La statua è opera – ci spiegò accuratamente, trattandoci come dei forestieri – dello scultore lombardo Pietro de Bonitade e risale al 1483. Raffigura il genio tutelare e l’emblema stesso della città. Ci difende da molto tempo prima di santa Rosalia. In verità, non so con quale efficacia, visto lo stato di prostrazione in cui versiamo. Ad ogni modo le sue origini sono antichissime. Sicuramente pre-romane. Potrebbe essere una rappresentazione di Crono. Una divinità saturnina, insomma, che allude all’opulenza del luogo. Il serpente, vedete, che reca in seno è probabilmente un simbolo di rinnovamento riconducibile ad Asclepio...
Dovemmo interrompere il fiume inarrestabile delle sue delucidazioni storico-municipali inventandoci un impegno urgentissimo che ci chiamava, purtroppo, altrove.
Il Professore quindi ci accompagnò, col suo passo un po’ caracollante, per la scalinata di via Viceré Caracciolo disquisendo sull’inarrestabile declino del mercato che un tempo era stato il ventre di Palermo. Fece un tratto di strada con noi, fino alla chiesa di San Antonio Abate.
- Eccoci a quella che un tempo fu la Porta di Mare, la musulmana Bab al Bahr, dove oggi presiedono i santi Pietro e Paolo. Da qui si entra e si esce, si parte e si arriva. Metaforicamente, s’intende. Vedete lassù, sulla torre trecentesca dei Chiaramonte? C’è un orologio. Non sembra anche a voi un segnale di qualcosa? No? Eppure un tempo la campana di questa torre municipale chiamava i palermitani a raccolta. A volte mi sembra di udirne i rintocchi, quando la città soffre di più.
Dette queste sibilline parole, oltrepassò il cancello, si fermò di fronte all’edicola votiva del secentesco Ecce Homo di frate Umile da Petralia e vi accese una candela.
- Non so bene che grazia chiedere – ci disse – ma è una mia vecchia abitudine, che ho ereditato da mia madre, che era solita fermarsi qui per una breve preghiera prima di recarsi a fare la spesa. D’altronde sono un fedele molto problematico. La notte mi pare di poter credere in Dio e nell’anima, ma al mattino mi sveglio scettico. Mi pare impossibile che esista altro signore del cielo che non sia il sole e altro padrone di noi che non sia la pancia che ha fame. Tuttavia nel pomeriggio comincio a pormi qualche domanda esistenziale. I rovelli filosofici si intensificano verso sera. Vado a dormire con i massimi sistemi, dialogando con le forze dell’universo e i misteri del creato. E chiudo gli occhi riconciliato con la religione, certissimo che la morte non esiste.
- E a quest’ora del mattino, della morte del ragioniere Grevaglio che idea s’è fatta? – lo incalzò il mio amico, a cui certe speculazioni sembravano aria fritta.
- Ma questa è tutt’altra faccenda, che con la metafisica c’entra e non c’entra.
- Insomma, c’entra o non c’entra? Intendo dire, il punto è proprio se una cosa è o non è. Ci vuole una logica rigorosa in certe faccende...
- Esatto, esattissimo. Il punto è proprio questo. Essere o non essere. Tertium non datur.
- E quindi, Professore?
- Un’idea l’avrei, ancorché vaga e generale. Lasciatemi fare un sopralluogo. Sapete, i posti raccontano tante storie interessantissime. A saperli interrogare, beninteso. E a saperli leggere. Ecco là il Teatro Biondo. Non sembra volerci dire qualcosa? A me pare proprio di sì. C’è qualcosa di enfatico, di spettacolare, in questo fatto di sangue. Forse un che di granguignolesco, appunto. O una botola di Don Giovanni. O un marchingegno per il deus ex machina. Un trompe l’oeil, magari. Cioè, alla lettera, un inganno dell’occhio. Chissà quante cose ha da confidarmi via della Clessidra. Se non altro saprò che ora è.
- A volte gli orologi sono rotti – ribatté spazientito il mio amico
- Non di meno qualcosa ci comunicano, circa il tempo. Un orologio fermo, due volte al giorno segna l’ora esatta. Non è poco, se ci riflettiamo.
- Non è poco? Non è niente! Se non posso sapere che ora è in qualunque momento della giornata non so che farmene di un simile orologio...
- Questo forse è pretendere troppo. Per esempio c’è l’ora legale e quella solare. Senza contare quell’andare un po’ avanti o un po’ indietro che è tipico dei meccanismi tradizionali. Ma c’è, soprattutto, una doppiezza intrinseca nell’orologio che mi pare istruttiva. Supponiamo che una persona stia dormendo, magari dopo una sbornia. All’improvviso si sveglia. La stanza è buia. Le serrande abbassate in modo ermetico. È in una specie di blando stato confusionale. Ha perduto la cognizione del tempo. Guarda l’orologio. Adesso sa l’ora: le tre, mettiamo. Ma non può dire se si tratta delle tre di notte o del pomeriggio. Il buio, se mi concedete il paradosso, non può illuminarlo in merito, perché le imposte sono sbarrate e un’eventuale luce non riuscirebbe a trapassare. L’orologio, in questa situazione, è ambiguo.
- Morale della favola?
- Lei vuole subito saltare alle conclusioni. Ci vuole un po’ di pazienza. E anche un pizzico di prudenza. Rivediamoci stasera al mio ufficio... sapete dove trovarmi, vero? alle sette. Cioè alle diciannove, a scanso di equivoci.
- Saremo puntualissimi, Professore – dissi, stringendogli cordialmente la mano vigorosa e abbrunita da una dubbia patina.
- A proposito, Professore di che? Cosa insegnava? – chiese con una provocatoria insolenza Ferraù.
- Insegnare? Diciamo che ho passato tutta la vita a imparare. E a dimenticare, per fortuna.
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Per leggere le puntate precedenti:
Il duplice assassino di Via della Clessidra. Una burla /1
Il duplice assassino di Via della Clessidra. Uno strano caso /2