di Marcello Benfante
Genere di necessaria consolazione, soprattutto in questi tempi bui e minacciosi, i fumetti sono tra le poche cose che oggi sanno distrarci dall’angoscia senza abbrutirci né intontirci. Nessun altro balsamo riesce a corroborare il nostro animo così gentilmente.
Mi sono quindi deciso a ordinare sull’etere delle infinite possibilità un nuovo albo della rediviva saga di Blake e Mortimer, ispirata ai capolavori imperituri di Edgar Pierre Jacobs (1904-1987).
Il corriere, come in un racconto buzzatiano-borgesiano, è quindi venuto dal nulla e dalla notte, dalla desertica tristezza onnipresente, per recarmi il dono di un frammento di felicità e di infanzia: “La valle degli immortali”, Tomo 2, di Yves Sente, Teun Berserik e Peter Van Dongen (Alessandro Editore, 2019).
Un volume bellissimo, che a solo sfogliarlo colma il cuore di antiche promesse e mai sopite emozioni, riallacciandosi al classico tema del “pericolo giallo” e in particolare al primo episodio delle avventure di Blake e Mortimer, “Il segreto dell’Espadon” (1946), ma qualche reminiscenza anche dell’ultimo, ovvero “Le 3 formule del professor Sato” (1971).
Lo sguardo si bea di tanto splendore, le mani carezzano le seriche pagine.
Tutto rifulge, tutto è perfetto. Eppure, manca qualcosa. Come definire questa ineffabile assenza?
Qualcosa di essenziale, proverei a dire, che non è attribuibile alla forma (ma pone un problema formale). Niente da dire, infatti, sul nitore e l’eleganza del segno né sull’armonia della composizione della tavola, che sono impeccabili, ineccepibili.
Niente da dire sul colore, sui paesaggi, sugli interni, sulla cura e l’attenzione dedicata agli oggetti, all’arredamento o sulle atmosfere old style, sull’esattezza della ricostruzione storica.
Ma leggendo, guardando, continuo a chiedermi cosa manchi, cosa sfugga alla pienezza artistica del racconto in tanta precisione, in così geometrica ed esatta rappresentazione.
E non possiamo dire nemmeno che si tratti di una carenza di sostanza, di una insufficienza del soggetto o della sceneggiatura, che, pur macchinosi, sono sicuramente ben costruiti e di saldo impianto narrativo, basati su un’approfondita documentazione, dando a una ben architettata vicenda fantastorica, di gusto orientalista, con una impetuosa accelerazione finale di stampo immaginifico e fiabesco.
E allora? Cosa c’è che non va, che non mi convince né seduce del tutto?
C’è che l’operazione di recupero dell’opera e dei personaggi, che all’inizio mi struggeva almeno di nostalgia e di malinconia, è andata via via slittando verso dimensioni più placide di manierismo.
La ligne claire, lo stile cristallino di Jacobs, è cioè divenuta una maniera, e come tale ha un che di stucchevole, di falso, di sterile. Di artefatto (che è l’esatto contrario di artistico).
Mortimer stesso ha perduto vitalità, anima, umorismo. Ha perduto la sua innocenza. È divenuto la copia tipologica, e quindi schematizzata, di se stesso. Una sorta di marchio.
La parodia, che sottendeva la sofisticata misura jacobsiana, si è elevata al quadrato, è diventata parodia di sé stessa. E in questo raddoppio ha perduto la sua valenza ironica.
Ridotta a maniera, a stilema di uno stilema, in una sorta di estenuata rarefazione imitativa, la linea chiara è diventata fin troppo chiara, di una diafana inconsistenza stilistica. Si è per così dire fantasmizzata.
Anche nel senso che la rievocazione del “mondo di ieri” sortisce fatalmente l’effetto medianico di richiamare a una parvenza di vita uno spirito trapassato.
Ma soprattutto perché non si scorge, oltre la linea, dietro le silhouette e i loro pastellati fondali, quell’energia avventurosa e felice che costituiva il mondo feuillettonistico e melodrammatico di Jacobs.
Ed è un peccato perché Yves Sente, Teun Berserik e Peter Van Dongen sono fedelissimi e virtuosissimi restauratori di questo universo cartaceo e favoloso, ai quali io, da aficionado, sono infinitamente grato.
Il loro è un prodotto di estrema delicatezza e precisione, ma anche di esangue freddezza. Il romanzo c’è tutto, perfino con le verbosità prolisse tipiche di Jacobs. E l’opera grafica rifulge di un raffinato lindore.
Ma la sintesi tra l’elemento romanzesco e quello illustrativo è una fusione a freddo, priva di un’autentica forza espressiva. Mortimer è una controfigura senza nerbo. L’epopea non vola. Non troppo in alto, almeno. Nonostante le ali di drago di cui si provvede.
È il problema, come ho scritto altre volte, del cosiddetto e sedicente graphic-novel, eufemismo vanamente pretenzioso che, anziché nobilitare un genere già nobilissimo come il fumetto, gli sottrae la sua grazia e innocenza, la sua poetica leggiadria, appesantendolo e irrigidendolo talora con discutibili inspessimenti più o meno culturali.
E all’interno di questo problema v’è quello, strettamente connesso, della prosecuzione postuma del fumetto d’autore (eventualità quasi sempre disdicevole dalla quale molti grandi cartoonist si sono preventivamente salvaguardati proibendo per volontà testamentaria l’uso dei loro personaggi da parte dei posteri).
Il fumetto d’autore non è replicabile. Quello di Jacobs men che mai. Nonostante l’estrema perizia e l’indiscutibile talento dei suoi validissimi riesumatori.