di Marcello Benfante, con le tavole di Gianni Allegra
[Nelle puntate precedenti: Da pittore surrealista, Zingales riflette sulla natura schizofrenica dell’enigma poliziesco di via della Clessidra. Chi ha sparato? Il Bel Tenebroso o la Venere Bionda? Le testimonianze sono infatti discordanti. E qual è il movente? Si tratta forse di mafia? No, non pare. Entra in gioco il Professore, protagonista e indiscutibile deus ex machina del racconto. Noto anche come Diogene, è il re dei clochard. Da molto tempo vive di elemosine nel cuore della Vucciria, offrendo la sua onnicomprensiva consulenza alla popolazione del quartiere, che lo consulta con assolta deferenza. Uomo dottissimo, si produce in ampie e varie disquisizioni, riflettendo tra l’altro sull’ambiguità degli orologi.]
V
DISARMONIE PRESTABILITE
La sua intelligenza robustamente logica non si lasciava frastornare dalle chimere. Sensibile a quel che di terribile era nella realtà, non ne paventava le ombre.
(Edgar Allan Poe, «La Sfinge»)
L’appuntamento con Ferraù era come di consueto al Caffè degli Artisti (che chissà perché si chiamava così, giacché io ero l’unico degli abituali frequentatori che poteva dirsi dedito a un’arte, fatta eccezione forse per il cameriere Isidoro, che a suo modo vi praticava una sorta di teatrino filosofico quotidiano).
Il mio amico aveva mille dubbi sul conto del Professore. Del tutto comprensibili, peraltro. Il personaggio gli sembrava troppo bizzarro per ispirare fiducia. Troppo pirandelliano. O meglio, troppo pirandellista.
Io invece avevo l’assoluta certezza che il caso fosse praticamente già risolto e che il Professore volesse soltanto verificare sul campo le sue ipotesi.
D’altronde, in questo, io e il mio amico siamo affatto diversi, pur avendo molte affinità che costituiscono la base saldissima del nostro rapporto. Io credo in tutto. Direi, quasi letteralmente in tutto: nell’oroscopo e nel destino, nella jella e in ogni genere di superstizione, nell’angelo custode e nell’amore a prima vista, nello Yeti e nelle premonizioni oniriche. E poi ai fantasmi, alle anime dei decollati, ai lupi mannari, alle virtù del tè verde, ai miracoli, alla metempsicosi. A ogni cosa che appaia assurda alla luce del buon senso. Ecco, si può dire che io credo nell’incredibile. E tuttavia mi picco di essere una persona razionalissima e dotata di una logica sopraffina.
Ferraù invece non crede in niente. Né a Cristo né a Budda. Né al diavolo né all’acqua santa. Né al caso né al fato. Né al prossimo né a se stesso. Sostiene che la prima dote di un investigatore è lo scetticismo. Il suo metodo: il dubbio. La sua condotta: il sospetto e la circospezione. Scomodissimo stile di vita, mi pare, che consiste nel camminare sempre sui carboni accesi dell’incertezza.
E tuttavia è costretto, quanto meno nel lavoro, a credere ai fatti, alle cosiddette prove. E perfino a fare affidamento su elementi labilissimi come gli indizi. Tutte cose che invece a mio avviso sono estremamente opinabili e contestabili.
Ora, non è chiaro se è stato in base a questo suo assoluto agnosticismo che ha scelto il mestiere improbo e improbabile del detective o se viceversa è stato il mestiere a indurlo a una sistematica diffidenza.
Perché poi abbia scelto questa professione inverosimile, ai limiti dell’incredibile, soprattutto a Palermo, non sono mai riuscito a capirlo.
Il padre, l’onesto avvocato Amleto, era un civilista coscienzioso e capace con una clientela piuttosto vasta, anche se non molto puntuale nei pagamenti, che Ferraù avrebbe potuto naturalmente ereditare. Sembrava infatti avviato a farlo dopo la brillante laurea in Giurisprudenza e l’immediata abilitazione alla professione forense.
Invece subentrò la crisi di vocazione. Totale. Radicale. Se mai aveva gradito la prospettiva, ora di fare l’avvocato non gli andava più. Anzi, l’idea di diventare una specie di azzeccagarbugli gli dava proprio l’orticaria.
Cercava invece qualcosa di più eccitante e tempestoso. Una vita avventurosa e intrigante che lo riscattasse da un aspetto (a suo parere) mediocre, di cui si è sempre crucciato, per via della statura bassina, che a scuola gli costò tra i compagni l’inciuria di corto Maltese, della corporatura un po’ pingue e della (sempre a suo parere) scarsa avvenenza, riscattata soltanto dalla chioma fiammante e ribelle. Fisime e ubbie piuttosto infantili, si dirà. E fanciulleschi i sogni ardimentosi. Ma tant’è.
Lettore insaziabile di gialli ed enigmista per hobby, decise un giorno, con avventatezza, che avrebbe fatto l’investigatore, ma per suo conto, senza superiori né ordini né disciplina. Senza strutture statali che lo ingabbiassero.
Fu così che brigò a lungo, ma infine con successo, per ottenere la licenza, mobilitando una schiera di vecchi amici del padre: un paio di magistrati, un Maresciallo dei Carabinieri, un Consigliere comunale.
Quindi fondò la “Maltese Investigation”, di cui era (ed è) titolare e factotum, incaricandomi di disegnarne il logo (ovviamente gratis) e prescrivendomene minutamente le caratteristiche.
Doveva raffigurare il volto stilizzato di un uomo, visto di profilo, con in testa un borsalino e in bocca una pipa (scelta incomprensibile, dal momento che Ferraù non ha mai portato cappelli e non ha mai fumato alcunché).
In basso doveva spiccare, nettamente visibile e leggibile, il velleitario motto dell’agenzia: “Sapere le cose è il mio mestiere”.
Prese poi uno studiolo minuscolo in via del Panettiere, una zona periferica un po’ fuorimano ma in compenso dagli affitti assolutamente abbordabili. Mise una gran targa d’ottone a lato della portineria, fece stampare migliaia di biglietti da visita e diede inizio alla sua temeraria carriera di private eye.
Che finora, a dirla tutta, non è progredita granché. Né d’altronde poteva andare diversamente in questa nostra città eslege e asociale, di mafia e d’omertà, d’insofferenza nei confronti degli sbirri, anche e direi soprattutto se privati, cioè nella condizione oscura di non appartenenza al potere dello Stato, l’unico plausibile, sebbene odiato e disubbidito.
In un certo senso, questo esito catastrofico era per così dire già scritto. Non tanto nelle stelle o nelle linee della mano, quanto nei nomi dei protagonisti. Chiamandosi Amleto, il padre aveva comunicato al figlio il senso del dilemma e dell’inchiesta. Battezzandolo Ferraù, in quanto appassionato dell’opera dei pupi e in particolare dei personaggi saraceni, gli aveva impresso il gusto della pugna e dell’impresa.
Vero è che il fratello minore di Ferraù, pur chiamandosi Rodomonte, non ha dato mai in escandescenze e si è sempre dimostrato persona ammodo ed equilibrata. Non di meno resto assolutamente certo della mia tesi onomastica.
Isidoro si avvicinò al nostro tavolo con il suo microscopico taccuino per le ordinazioni e il lapis smozzicato.
Io chiesi il solito White Lady (ripensando come sempre al mio diafano amore perduto) e Ferraù il suo stimolante caffè doppio.
- Dottore, non sarebbe meglio una camomilla? Mi sembra già un po’ troppo eccitato.
- Isidoro, non sarebbe il caso che tu ti facessi i fatti tuoi?
- È quello che sto facendo, dottore. Se le viene una sincope, addio cliente e addio mance! Non che le sue, beninteso, siano particolarmente generose, anzi…
Voleva avere sempre l’ultima parola, il caro vecchio Isidoro. E di solito l’aveva.
Dopo un po’ fummo presi da una fastidiosa sensazione di impazienza e frustrazione. Ci guardammo negli occhi, smaniosi e insoddisfatti, e d’un tratto decidemmo di recarci anche noi in via della Clessidra per vedere se il genius loci poteva ispirarci la soluzione dell’enigma.
Evidentemente non avevano le orecchie adatte o abbastanza allenate per questo genere di auscultazioni. Non vedemmo altro che trattorie multietniche e negozi pittoreschi: un miscuglio di folclore posticcio e autentica, nonché ostinatissima, fatiscenza.
Con aria perplessa, Ferraù si soffermò a guardare la vetrina di un negozio di souvenir in cui si esibiva ironicamente una sicilitudine postmoderna.
- Come cambiano i tempi! – commentò – Un mio vecchio amico, una specie di giornalista, mi ha raccontato che da queste parti, forse proprio in quel portone lì, c’era la sede di un partitello rivoluzionario, o sedicente tale, in cui aveva militato in gioventù.
- In un certo senso, una rivoluzione è avvenuta davvero. Guardati intorno. Qui si mangia più il kebab che il nostro pane con la milza, per esempio. E il Professore direbbe che l’uomo è ciò che mangia...
- Bene, eccoci qui, in questo vetusto budello intitolato all’antico misuratore del tempo. Il che forse dovrebbe indurci ad analizzare ulteriormente l’ora del delitto, a cronometrare la sequenza dei fatti...
- Bisognerebbe coinvolgere il Professore in questo riaesame.
- Per lui sarebbe un vero invito a nozze. Ci terrebbe una conferenza interminabile..
- Magari a partire da Sant’Agostino. Qualcosa tipo... il tempo è una dimensione dell’anima.
- Oppure tornerebbe al tema di Crono che divora la sua prole. Che ne dici, il contabile Grevaglio potrebbe essere un figlio di Crono?
- Siamo tutti figli del nostro tempo. Comunque, meglio lasciare al Professore certi discorsi. Sbrighiamocela da soli. Stavo appunto pensando che in questo modo il tema dell’orologio si triplicherebbe, addirittura...
- Un surplus, un tempo che si frantuma e dissolve. Come gli orologi liquefatti del tuo Dalì...
- Di Dalì ho preso solo i baffi, non è un pittore che amo particolarmente...
- In fin dei conti, gli eventi accadono in un unico tempo, qualunque sia il numero degli orologi che pretendano di misurarlo.
- D’accordo. Un solo tempo. E un solo luogo.
- Unità di tempo e di luogo. Se aggiungiamo l’unità d’azione siamo in piena poetica aristotelica. Ma forse è il caso di lasciare la filosofia ai sofismi del Professore...
- Dunque, il delitto è stato compiuto alle ore ventuno e trenta, e su questo i testimoni sono concordi. Giusto?
- Giusto. E anche il luogo è fuori questione. La perizia balistica lo conferma. Si tratta del tetto di questo palazzotto mezzo cadente. Tetto malagevole, mi è stato detto, al quale si accede mediante una scala da una specie di café-chantant, il “Colapesce”, recentemente aperto dopo alcuni discutibili lavori di ristrutturazione.
- L’assassino o l’assassina doveva quindi essere un avventore del locale...
- O magari un dipendente...
- In pratica chiunque poteva introdursi nel locale...
- Proprio così. Infatti il “Colapesce” è provvisto di tavoli ma serve anche al bancone. Facilissimo quindi raggiungere le scale che conducono al tetto. Tanto più che le scale si trovano in prossimità dei servizi igienici destinati al pubblico, come puoi vedere in questa piantina che mi ha fornito un amico della Polizia, l’ispettore Cascavallo di cui ti ho spesso parlato.
- Possiamo almeno supporre che l’assassino sia una persona che conosce bene il posto?
- Non necessariamente. Sarebbe bastato un semplice sopralluogo preventivo. L’ambiente non è vasto e ha una dislocazione piuttosto semplice.
Passeggiando e discutendo, da buoni camminatori e ottimi fanfaroni, eravamo intanto giunti in Piazza Olivella, a cospetto della mole barocca della chiesa progettata dall’architetto lombardo Antonio Muttone, affiancata dall’oratorio neoclassico del nostro Venanzio Marvuglia. L’armonioso intrico stilistico mi fornì lo spunto per un’ulteriore divagazione filosofica.
- Non abbiamo considerato nei nostri discorsi che tempo e luogo non sono coordinate indipendenti. I luoghi infatti si trasformano nel corso del tempo. Hanno una storia, insomma. Prendiamo per esempio questo posto dove ci troviamo. Pare che il nome Olivella derivi da “olim villa”, poiché una volta qui sorgeva la villa di quei nobili Sinibaldi a cui apparteneva anche la nostra amatissima patrona Santa Rosalia.
- Per carità, non cominciare anche tu a fare il Baedeker. Dove vuoi arrivare con queste dotte considerazioni?
- Non so... forse al fatto che dovremmo porre attenzione non solo alla sincronia degli avvenimenti, ma anche alla diacronia dei fatti e dei protagonisti. Fin qui abbiamo esaminato la logistica e la tempistica in un rapporto di stretta e immediata dipendenza. Ma occorre anche fare un passo indietro. Una specie di flash-back, insomma. Concentriamoci adesso sulla vittima, e quindi sul possibile movente. Che sappiamo del caro estinto? Qual è la sua storia?
- Quel poco che ti ho già detto. Incensurato. Se vogliamo attribuire un valore al casellario giudiziale. Addirittura irreprensibile, a detta di chi lo conosceva. Teneva la contabilità di alcuni negozi, per lo più orafi...
- Non so tu, ma io sento di nuovo odore di bruciato. O di zolfo. Alcuni orafi funzionano ancora come un banco di pegno, cioè come luoghi in cui si sfrutta il bisogno della gente di un’urgente liquidità per acquisire gioielli familiari a prezzi molto convenienti. Dovremmo indagare più a fondo, non ti pare?
- Va bene, me ne occupo io.
- In fondo, il detective sei tu...
- Grazie per il lusinghiero “in fondo”...
- Mi pare che sei diventato un po’ troppo permaloso ultimamente.
- Se ti riferisci alle mie perplessità sulla consulenza del professor Diogene o come caspita si chiama, sappi che l’amor proprio non c’entra. Il fatto è che io, molto semplicemente, detesto l’approssimazione, la fumisteria, le chiacchiere... insomma il dilettantismo...
- E fai male, perché senza diletto non c’è conoscenza.
- Non giochiamo con le parole, il crimine è una cosa seria...
- Serissima, senz’altro, ma non sussiegosa, vivaddio... certe volte il tuo perfezionismo formale è stucchevole.
- Per te la faccenda può costituire uno svago, un hobby, una specie di vacanza o passatempo. Ma per me si tratta di lavoro. Della prima grossa occasione di mettere in luce le mie capacità, ammesso che ne abbia, e avviare la mia carriera, ammesso che potrò mai averne una.
- Adesso non cominciare con uno dei tuoi soliti piagnistei sul futuro incerto e plumbeo che ci attende...
- D’accorso, niente lamentazioni. Prendiamo la faccenda sportivamente, come vuoi tu. Ma il guaio è proprio che da tutta questa nostra amena perlustrazione non abbiamo cavato nessun indizio valido. Siamo punto e a capo...
- Non sarei così pessimista. Ho invece la sensazione che ci siamo avvicinati molto al bersaglio, che forse lo abbiamo sfiorato...
- A cosa ti riferisci?
- Oh, a nulla di preciso. Una sensazione, te l’ho detto... qualcosa che mi ronza nelle orecchie e nella testa. Una specie di good vibration. Forse qualcosa che abbiamo detto...
- Non è con le sensazioni ottimiste che si assicurano i criminali alla giustizia!
- Quanto a questo, hai perfettamente ragione. Non possiamo fa altro che sperare che le indagini del Professore siano state più proficue delle nostre, aspettativa peraltro assai probabile. Ci resta ancora qualche oretta prima del nostro appuntamento. Visto che siamo a due passi dal Museo Archeologico, che ne diresti di una visitina per ingannare il tempo? Tanto più che stamani il Professore ci ha già equiparati a turisti...
- Al museo? Perché no. Rilassiamoci un po’, visto che per il momento non emergono altri indizi. Magari una pausa ci aiuterà a mettere ordine nelle nostre poche e vaghe idee.
Ci intrattenemmo quindi piacevolmente per un paio d’ore tra reperti ben più affascinanti, ma talora non meno enigmatici, di quelli che poteva offrire la squallida scena di un delitto, ancorché efferato e oscuro.
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Per leggere le puntate precedenti:
Il duplice assassino di Via della Clessidra. Una burla /1
Il duplice assassino di Via della Clessidra. Uno strano caso /2
Il duplice assassino di Via della Clessidra. In cerca dell'uomo /3