di Marcello Benfante, con le tavole di Gianni Allegra
VI
ERCOLE AL BIVIO
Non ci deve essere una storia d’amore troppo interessante. Lo scopo è di condurre un criminale davanti alla Giustizia, non due innamorati all’altare. (S. S. Van Dine, «Venti regole per scrivere romanzi polizieschi»)
In realtà, se devo essere sincero, la vera ragione per cui volevo recarmi al museo Salinas non era esattamente di natura culturale. Né mi prefiggevo un semplice svago in attesa del rendez vous col Professore.
Confesso che contavo invece di incontrare la mia amica Dora Demetri, giovane archeologa di belle speranze, che del museo aveva (e ha tuttora) fatto praticamente la sua casa, stazionandovi dalla mattina alla sera sia per condurre i suoi studi, sia per una sorta di misteriosa attrazione. Ricerca di un rifugio? Qualcosa di simile, suppongo. Pare che lei si senta al sicuro solo tra le steli funerarie e i sarcofaghi, o comunque nella contemplazione di epoche trapassate.
Come potete immaginare, in Dora, non solo le speranze sono belle, ma tutto il sembiante e la persona intesa come dimensione interiore ed esteriore. Insomma, l’aspetto fisico e l’anima che lo alberga. Potrei stare ore e ore a descrivere i barbagli dei suoi occhi cilestrini (che mi ricordano quelli della mia Sophisticated Lady e, mi pare, anche quelli di qualcun altro) o un certo suo modo di sorridere e di parlare, così vivo, interessante, simpatico, malioso...
Sì, avete capito benissimo: ne ero e ne sono follemente innamorato. Invano, s’intende. Il guaio è che pure Ferraù spasima per lei. E chi non lo farebbe, d’altronde? I suoi corteggiatori sono legione. E di conseguenza le mie speranze di conquistarla sono alquanto remote. Un amore impossibile. Una specie di suicidio perfetto.
Non che la nostra amicizia sia fredda o formale. Anzi, l’inciampo sta proprio nel fatto che siamo fin troppo amici. E gli amici, si sa, possono finire con l’ignorarsi o giungere perfino a odiarsi, ma raramente si amano, se non in quella forma fraterna che esclude la passione e l’intimo coinvolgimento sentimentale.
Il problema, con Dora, è proprio che lei mi stima e che le sono carissimo, ma non esercito sulla sua fantasia nessun fascino, nessuna attrazione anche solo vagamente erotica. Giudica i miei quadri degli esercizi di buona tecnica e di ottimo gusto, e tuttavia poco profondi, privi di un autentico talento artistico. Mi rimprovera addirittura di disperdermi e sciuparmi in frivolezze.
Devo dire che in questo suo atteggiamento c’è un pizzico di pregiudizio intellettualistico. Per lei resto fondamentalmente un fumettista e un pubblicitario, un autore seriale che asseconda il gusto prosaico del pubblico.
Non riesco mai a sorprenderla, a stupirla. Tutt’al più le strappo talora un sorriso di compiacimento e di incoraggiamento (che ovviamente, in fondo, mi dispiace e mi scoraggia).
Pensavo quindi di stimolare il suo interesse mettendola a parte delle indagini che stavo conducendo con Ferraù. Purtroppo avrei portato acqua anche al mulino del mio sodale e concorrente. Anzi, soprattutto al suo mulino, ché in fondo, in qualità di investigatore privato, era proprio Ferraù il titolare dell’inchiesta.
Ad ogni modo, escludevo che il mio amico potesse essere effettivamente un rivale insidioso. Troppo banale, troppo leale. Pensavo di avere comunque qualche carta in più, soprattutto per la mia sensibilità artistica (devo dire, purtroppo, che m’illudevo al riguardo: Dora ha finora mostrato uguale disinteresse tanto per me che per il mio amico).
Benché insensibile ai nostri patetici e languidi sguardi amorosi, l’avvenente archeologa ci accolse con grande affetto e volle a tutti i costi guidarci in una visita mirata ai tesori più preziosi del museo. Per la seconda volta nella stessa giornata ci trasformammo quindi in pazienti turisti nella nostra stessa città e, dopo quella del Professore, dovemmo sorbirci la lezione un po’ più tecnica e specialistica della nostra amica.
A dirla tutta, seguii poco o punto le sue dotte delucidazioni. Ero semplicemente incantato dal suono della sua voce melodiosa, dal suo canto naturale così graziosamente modulato.
Io e il mio amico fummo comunque un uditorio diligentissimo. Proprio come a scuola, i cui eravamo smaliziati millantatori, fingemmo un’attenzione scrupolosa ai dettagli più eruditi, anche se in realtà la testa era volta altrove, ai misteri di via della Clessidra, e così pure gli occhi e i cuori, interamente pervasi dello splendore vitale della nostra incantevole guida.
Dopo il giro delle sale del museo (che per nostra fortuna erano, come al solito, per metà chiuse al pubblico) fu finalmente la nostra volta di assumere una parte attiva nella conversazione.
Dora si dimostrò un’ascoltatrice eccezionale. Sembrava addirittura pietrificata nello sforzo di attenzione con cui registrava ogni particolare della vicenda che io e Ferraù, sovrapponendo continuamente i nostri resoconti nel tentativo reciproco di sopraffarci e di metterci in maggior risalto, esponevamo in modo confuso e maldestro.
In particolare fu molto colpita dal fatto che fossimo ricorsi alla consulenza eterodossa di un barbone della Vucciria noto a tutti come Diogene o il Professore.
I suoi occhi celesti s’incupirono e assunsero una tonalità più fredda e più dura.
- Conosco bene questa persona. È stato il mio, diciamo così, maestro per tanti anni...
- Davvero? Allora potrai dirci chi è... come si chiama... qual è il suo mistero – disse Ferraù con incauto ottimismo.
Io invece avevo notato l’irrigidirsi dei lineamenti di Dora e temevo che avessimo toccato un argomento doloroso.
- Avete ragione, la vita del Professore è davvero un mistero. E tale deve rimanere, perché questa è la sua volontà. Che io rispetterò nel modo più assoluto, nonostante il rancore che nutro nei confronti di quest’uomo, di cui non posso tuttavia non ammirare le doti intellettuali e l’estrema coerenza con cui si è dedicato alla causa degli ultimi.
- Rancore? Perché mai? – chiesi, pur sapendo già che la mia domanda sarebbe stata elusa.
- Non posso né voglio entrare nei dettagli. Sappiate solo questo, che il Professore rompendo il suo contratto con il mondo ha lasciato alle sue spalle non solo una carriera prestigiosa, ma soprattutto una famiglia che lo adorava...
- Ha dunque una famiglia?
- Quel che ne resta. Due figli...
- E cosa lo ha spinto, se è lecito saperlo, a questo esilio?
- Fu coinvolto in uno scandalo, anni fa. Forse fu questo l’inizio della sua crisi. Il peccato originale, per così dire. E poi si diede al vino fino ad abbrutirsi. Infine decise che la sua vita sarebbe stata quella del cane, come il Socrate pazzo a cui tutti lo paragonano. E adesso non parliamone più. È stato il mio mentore e gli ho voluto molto, molto bene. Ma per me è un capitolo chiuso. Una parte della mia vita che cerco di dimenticare.
Provai una fitta di gelosia. Se il mio destino era l’oblio, avrei voluto essere dimenticato da Dora con uguale turbamento. Immaginai per un attimo che fossero stati amanti. L’ipotesi era tuttavia inverosimile. Troppa la differenza d’età.
Mentre inseguivo altre congetture più plausibili, mi accorsi che Ferraù guadagnava campo tornando sul caso di via della Clessidra con le arie di un criminologo navigato.
- C’è una sorta di sdoppiamento in questa vicenda – commentò Dora dopo aver ascoltato i fatti in un raccoglimento riflessivo, come se li assorbisse – che sembra proporci un bivio. Un bivio d’Ercole, in un certo senso. Ma non l’opzione per la voluttà o per la virtù... ricordi Leo il quadro di Annibale Caracci? Piuttosto direi tra giustizia e delitto. Una giustizia malintesa, ovviamente.
- Spiegati meglio, mi sembra quasi di sentire il Professore... – la incitai con entusiasmo, felice che mi avesse chiamato Leo, come solo lei usava fare fra tutti gli amici, e mi avesse individuato come interlocutore delle sue elucubrazioni artistiche.
- Voglio dire che il delitto ha tutte le caratteristiche di un’esecuzione. L’assassino si è posto in alto per punire la sua vittima. Ha voluto rimarcare la sua superiorità. Morale o intellettuale, chissà.
- L’assassino o l’assassina... – precisò Ferraù.
- Anche in questo dubbio si conferma il paradigma del bivio. Abbiamo due ipotesi. Saremmo tentati di dire che l’una o l’altra è falsa. Ma potrebbero essere false entrambe. In fondo, un’ombra può assumere le forme più diverse. Che l’apparenza inganni non è solo un modo di dire. E in un certo senso potrebbero anche essere entrambe vere. Ma solo in un diverso ordine di idee. Su un più complesso piano di verità. La realtà è sempre un processo di trasformazione. Pensate alle teste leonine delle docce di gronda del tempio di Himera, che il contatto con l’aria, nel momento del loro disseppellimento, ha scolorito irreparabilmente. Ora le vediamo così, petrose e austere, ma in origine erano policrome: la criniera era azzurra, il muso ocra, le orecchie vermiglie. E ammirandole nella loro ruggente e disadorna semplicità ricadiamo nel vecchio equivoco di Winkelmann e dell’estetica neoclassica...
- Ma in che modo potrebbe essersi trasformata la figura dell’assassino? – intervenne Ferraù, che già da un pezzo mostrava segni di insofferenza per la china eccessivamente astratta che aveva preso, a suo avviso, la discussione.
- Per l’appunto in modo pittorico... impressionistico...
- Mi pare una teoria troppo vaga.
- Lo è senz’altro. Io capisco un po’ d’arte, di crimini so ben poco, se non quelli commessi in nome di Ba’al Hammon, magari... So però che la realtà è anche il risultato di una mediazione interpretativa. Prendiamo per esempio i graffiti rupestri delle grotte dell’Addaura. Come sapete, sono incisioni che risalgono al Paleolitico, ma che continuano a parlare al nostro presente e del nostro presente. Chi sono queste nove figure umane disposte in cerchio? Cosa indossano sul volto? Maschere sciamaniche? E perché alcuni sono raffigurati a terra, con le mani e i piedi legati, nell’atto di inarcare il corpo come in una specie di spasmodica contorsione? È difficile stabilire cosa stiano facendo. Forse un rito d’iniziazione, una sorta di danza acrobatica. O forse si tratta di un sacrificio umano, di un’uccisione propiziatoria per autostrangolamento. Una sorta, in pratica, di archetipo dell’incaprettamento mafioso.
Tutti vediamo la stessa cosa, una primitiva scena dinamica. Forse terribile, forse festosa, liturgica. Ma il suo senso ci sfugge, sebbene nel contempo ci appaia fin troppo esplicito.
***
Per leggere le puntate precedenti:
Il duplice assassino di Via della Clessidra. Una burla /1
Il duplice assassino di Via della Clessidra. Uno strano caso /2
Il duplice assassino di Via della Clessidra. In cerca dell'uomo /3
Il duplice assassino di Via della Clessidra. Disarmonie prestabilite /4