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17/05/2020 06:00:00

Il duplice assassino di Via della Clessidra. Ipse dixit /9

di Marcello Benfante, con le tavole di Gianni Allegra 

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IPSE DIXIT

È impossibile, infatti, supporre che la medesima cosa sia e non-sia, come certuni credono che, invece, sostenga Eraclito
(Aristotele, «Metafisica»)


Bevuto l’ultimo sorso del suo secondo caffellatte, il Professore tirò fuori da una tasca del pastrano la sua pipa, la caricò con cura e l’accese mediante una specie di arcaico acciarino, assumendo un aspetto languido da Bruco carrolliano.

Subito si sprigionò dal fornello una voluta di fumo dolciastro che insospettì le nostre narici perbeniste.

Aspirando la sua strana miscela, cominciò a parlare con una voce bassa e profonda, quasi oracolare. Avvolto in una nuvola azzurrognola, aveva assunto un’aria assorta, un’espressione assente, rapita, ondivaga.

- Quando veniste a espormi il caso, provai subito la percezione nettissima di un dolore lancinante. Una specie di taglio che mi dilaniava la coscienza. Sono fenomenologie dello spirito che forse appartengono alla componente ancestrale della mia anima e di cui non mi rendo quasi conto. Percepivo un conflitto, una spaccatura. Non attribuii grande importanza alla cosa. In fondo si trattava di un delitto e quindi era normalissimo quel tipo di sensazione dolorosa e di antagonismo.

Cominciai perciò a esaminare il problema in modo logico. Nella meccanica del delitto c’era sicuramente un elemento di calcolo, ma anche una bizzarria che faceva pensare all’escamotage. E c’era pure l’ombra di un’impellenza, di un’irruenza. Forse l’urgenza di una vendetta. Ecco quello che pensai subito: una resa di conti.
Poi riguardai i suoi schizzi, signor Velazquez...

- Zingales, Professore, non esageriamo...

- Oh, mi scusi, faccio sempre confusione con i nomi... suppongo lei sappia che esiste anche un Velasquez siciliano, Giuseppe Velasco, in arte Velasquez, nato a Palermo da genitori spagnoli alla metà del XVIII secolo...

- Sì, so qualcosa anch’io, di tanto in tanto… ma torniamo al nostro caso... se non le dispiace.

- Senz’altro, ha ragione. A volte ho il vizio di essere un po’ didascalico. Un tempo avrei detto una deformazione professionale. Oggi a deformarmi è soprattutto l’artrosi. Insomma, quei disegni rappresentavano la scena del delitto in un modo geometrico che faceva chiarezza su molte cose.

- Per esempio?

- Per esempio il fatto che i testimoni fossero entrambi posizionati sullo stesso lato della via, alla medesima altezza, in modo pressoché simmetrico. Era dunque presumibile che avessero assistito, ciascuno dal proprio punto di vista, alla metà esatta di un fatto vero. Messa in questi termini, la contraddizione si dissolveva.

Aristotele infatti dice, nel IV libro della Metafisica che “è impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e nella medesima relazione”. Ora, il tempo era lo stesso. E su questo le testimonianze concordano. Ma la relazione differiva. Un testimone vedeva le cose dal lato sinistro e l’altro invece dal lato destro. Per cui la doppiezza poteva, anzi doveva, essere intrinseca all’oggetto stesso della loro testimonianza.

Il rombo di una motocicletta, facendomi trasalire, mi diede l’input fondamentale. I motociclisti, com’è noto, sono detti centauri. Ovidio nelle “Metamorfosi” definisce “biforme” questa creatura mitologica metà umana e metà equina. Mi posi dunque questa domanda: una natura doppia, metà maschile e metà femminile, è possibile solo nella forma aberrante dell’ermafrodito? Che, tra parentesi, fu oggetto degli epigrammi erotici dell’umanista Antonio Beccadelli, detto il panormita...

- Professore, per favore, non ricominci con il suo enciclopedismo...

- Sì, certo... vengo al punto. Presi dunque le sue graziose silhouette, caro Zingales, le ritagliai e le incollai una sull’altra, dando vita a una creatura bicipite e bisessuale. Una maraviglia disegnata. Un po’ come quella di cui narra Jorge Luis Borges. Ricordate la sua spassosa teoria del “Vestimento plastico”? Che in realtà meglio dovrebbe dirsi vestimento pittorico. Ossia la storia esemplare di quel tale Bradford, noto come “il signore della passeggiata”, che girava nudo per strada, con gli abiti scrupolosamente dipinti sull’epidermide. Lo ricordate? È nelle “Cronache di Bustos Domecq”...

- Sì, certamente – mentii per accelerare i tempi – ma andiamo avanti.

- Era dunque chiaro che l’assassino si celasse sotto un doppio travestimento. Questa intuizione mi fu del tutto chiara allorché, leggendo gli articoli di cronaca che mi aveva portato il signor Malpelo...

- Maltese, avvocato Maltese, se permette...

- Già, pardon... sarà stato per via dei suoi capelli rossi... dicevo, leggendo quegli articoli, mi capitò di girare la pagina del giornale per esaminare il retro. Dalla cronaca nera si passava agli spettacoli. Lo stesso foglio presentava due realtà diverse, a seconda del verso che si considerava.

Il taglio basso riportava una breve recensione di uno spettacolino tenutosi proprio il giorno del delitto e proprio in via della Clessidra, in un locale denominato “Colapesce”. Oltre a un rivelatore esercizio illusionistico di dissezione femminile, vi si parlava di un numero di danza in cui si esibivano sei ballerini in una specie di bolero postmoderno. L’articolo era laconico, ma a un certo punto descriveva in termini abbastanza elogiativi il “vorticoso mulinello delle sei coppie che, una alla volta, guadagnavano a turno l’uscita ruotando come trottole”. I conti non tornavano. Sei coppie significano dodici ballerini. A meno di non considerare ciascun ballerino come, esso stesso, una coppia. In tal caso, ossia secondo questa “relazione”, i conti tornavano esattamente. Tutto rientrava in un necessario ordine dinamico e numerico. E tutto si spiegava.

Per verificare l’ipotesi che si andava configurando nella mia mente, mi recai, come sapete, in via della Clessidra. Lì, fingendo di mendicare, notai la vivace insegna del “Colapesce”, eseguita nello stile tipico dei pittori di carretti e dei fondali dell’Opera dei pupi.

Nicola, il provetto nuotatore, mandato da Federico II a esplorare gli abissi siciliani, sembrò confermare la mia teoria con la sua natura ibrida e metamorfica. E ancora di più le voluttuose sirene che lo circondavano in una ammaliante coreografia. Una in particolare, raffigurata nell’atto di calarsi sott’acqua mercè un’agile capriola, con l’ittica coda ancora in superficie e il busto femmineo già immerso.

Mi venne di pensare che un eventuale testimone subacqueo avrebbe visto una donna, con i fluenti capelli biondi agitati dalle maree e il prospero seno; mentre un altro, che si fosse trovato a pelo d’acqua, avrebbe inequivocabilmente visto la metà guizzante di un pesce semisommerso.

Secondo un aneddoto leggendario, il Rio delle Amazzoni prende questo nome per un disguido dei suoi primi esploratori, che risalendone le acque sotto la guida di Francisco de Orellana, scambiarono alcuni bellicosi indigeni dai lunghi capelli per delle donne guerriere come le mitiche amazzoni. D’altronde, anche queste ultime, viste da un certo profilo, avrebbero potuto essere prese per uomini, dal momento che si narra usassero tagliarsi un seno per facilitare l’uso dell’arco. Il qui pro quo di Orellana e del suo equipaggio, alla ricerca dell’utopico Eldorado, ci insegna molto sugli equivoci dello sguardo.

Analoghi abbagli potremmo prendere in certi promiscui crocicchi notturni in cui si offre e si domanda l’amore mercenario.

Passai dunque ad analizzare la locandina pubblicitaria del “Colapesce” affissa in bacheca all’ingresso del locale. Ebbi così la conferma che i ballerini, di cui si riportavano dei nomi smaccatamente fittizi, in pura imitazione esterofila, fossero in tutto sei. Restava da capire come uno di loro avesse potuto allontanarsi dal gruppo per eseguire il delitto senza essere notato. Mandai in avanscoperta uno dei miei “picciotti”, Sarino, un ragazzo sveglissimo della Vucciria che sbriga per me, alla bisogna, certe faccende rognose o delicate che sono al di sopra delle mie forze.

Sarino ispezionò palmo a palmo il “Colapesce” e mi venne a riferire. Giunsi così alla conclusione che solo l’ultimo della fila, fra i ballerini in uscita dal palcoscenico, poteva imboccare la scala per i tetti, lungo l’angusto corridoio che porta ai camerini, senza dare nell’occhio e provocare imbarazzanti domande. Infatti, il primo sarebbe stato visto da tutti gli altri colleghi. Il secondo da tutti eccetto il primo. Il terzo dai tre seguenti. Il quarto dal penultimo e dall’ultimo. Infine il quinto dal sesto.

Non restava che l’ultimo, il chiudi-fila. Certo, erano possibili alcuni stratagemmi che avrebbero consentito anche agli altri di sovvertire quest’ordine meccanico. Ma la teoria dei sei piccoli ballerini, chiamiamola così, in omaggio alla Christie, era l’unica che corrispondeva alla matematica e al ritmo del caso. Un ritmo musicale e una danza macabra. La fulminea coreografia di un delitto.

Eseguito il suo nefando piano in pochi minuti, l’assassino avrebbe poi raggiunto i camerini senza destare sospetti. Anche questa era comunque una supposizione da sottoporre alla prova dei fatti. Bisogna essere logici, ma anche empirici. Verum ipsum factum, come direbbe Giambattista Vico.

Il resto vi è ben noto, giacché voi stessi ne siete stati i protagonisti. Impeccabili protagonisti. Certo, siamo stati facilitati dalla confessione del reo, ma anche in caso contrario la verità non avrebbe tardato a venire a galla, una volta accertato il possibile movente.

D’altronde, l’assassino doveva conoscere bene le abitudini della vittima, sapere della sua fumatina serale in balcone per decreto muliebre. Condizione, questa, che probabilmente avrebbe escluso in ogni caso più di un ballerino.

Bene, questo è tutto. Abbiamo riportato questa oscura faccenda alla trasparenza della verità e messo un po’ d’ordine nel caos della morte. Adesso dobbiamo scompigliare quanto di tetragono c’è nelle nostre vite. Ed è il compito più difficile.

- Professore, questo non è il primo delitto di cui svela i retroscena, non è vero?

- Ma no, cosa va a pensare, signor Malese...

- Maltese... sia sincero Professore...

- Che dire? Ogni tanto la gente del mio quartiere mi domanda chi ha commesso quel furto o quella violenza. Le donne, soprattutto, mi fanno questo genere di richieste. Si capisce, sono quelle che soffrono più offese e angherie. Io sto sulla strada, vedo tutto, conosco tutti, sento tutte le voci della mia gente... sono una specie di Orecchio di Dionisio. E se posso riparo qualche torto.

***

Per leggere le puntate precedenti:

Il duplice assassino di Via della Clessidra. Una burla /1

Il duplice assassino di Via della Clessidra. Uno strano caso /2

Il duplice assassino di Via della Clessidra. In cerca dell'uomo /3

Il duplice assassino di Via della Clessidra. Disarmonie prestabilite /4

Il duplice assassino di Via della Clessidra. Ercole al bivio /5

Il duplice assassino di Via della Clessidra. Istruzioni per l'uso /6

Il duplice assassino di Via della Clessidra. Al Colapesce /7

Il duplice assassino di Via della Clessidra. Cala il sipario /8