Molte persone oggi dicono di credere in una divinità, ma di quale dio parlano? Per molti è il dio bacco, il dio denaro, il dio droga, il dio sesso, il dio edonismo, il dio cultura, il dio potere e così via… sono politeisti perché credono in tanti dèi quanti sono gl’impulsi umani e, a seconda il momento opportuno, anche se non lo nominano mai, quello è il “loro dio”, il “mio dio” dicono, al di sopra di qualunque interesse al mondo.
Desidero sottolineare che non esiste uomo nell’universo che non abbia un punto di riferimento da cui ricavare le coordinate: spaziali ed esistenziale. Come non vive persona che non possa rimandare a un modello a cui ispirarsi ed eguagliarsi nel raggiungimento di fini ideali. La differenza sta che il dio idolatrato è circoscritto nella sua stessa impotenza, differentemente dal Dio potente e padrone dell’Universo. È un dio a cui si attribuisce un potere che non ha, nominale e privo di autorità.
Il “mio dio”, secondo la loro scala di valori, non è il Dio dei patriarchi e dei profeti rivelato da Gesù Cristo, ma proviene dal desiderio di liberismo, si appoggia all’illuminismo e a tutto ciò che fa parte di una teoria tanto prevalente dalla metà del XIX secolo che è del positivismo: movimento filosofico-culturale che fa riferimento all’esaltazione del progresso scientifico, sperimentale ed è il frutto della rivoluzione industriale della fine del XVIII secolo che, a sua volta, influenzerà la nascita del verismo in Italia con Ardigò e del naturalismo in Francia con il suo massimo esponente Comte. Il concetto astratto e metafisico viene messo da parte.
Il “mio dio” odierno non è quello dell’attesa, non si ha tempo, infatti, per aspettare, ma del tutto e subito. Ci siamo dimenticati del ciclo naturale e del tempo che scorre. Il contadino ce lo insegna. I frutti della madre terra non possono essere una forzatura ma un naturale svolgimento e sviluppo dei tempi. Se la terra produce in diversi ambienti è perché quello è l’habitat ordinario della riproduzione: come questo avviene per le piante, lo è per gli animali.
Il “mio dio” non è quello della vita ma della morte. Ci si mette assieme non per procreare ma per avere una compagnia, salvo abbandonarla quando non serve più, come se la dignità di una persona si equivalesse a un limone spremuto. E quando arrivano i figli, poiché sono un impedimento, si annullano nel peggior modo possibile.
Il “mio dio” è ciò che cade sotto i miei occhi: «Dov’è l’altro Dio, invisibile? Perché non si fa vedere?». C’è una distrofia maculare, poiché si crede solo in ciò che possiamo toccare con mano, sperimentare, possedere, ma dal momento in cui inglobiamo un assoluto nella nostra mente quello non sarebbe più un Dio né noi saremmo più umani ma divini, noi stessi infiniti, così i due infiniti si annullerebbero a vicenda.
Oggi esistono tante divinità che il mondo vorrebbe far credere, sono “Il dio in cui non credo” (titolo di un volumetto scritto da Juan Arias nel 1975, Cittadella Editrice, Assisi, X edizione), in cui l’autore spagnolo citava ciò che non è dio, mettendo in risalto il vero Dio che si rivela in tutta la sua umanità e vicinanza all’uomo, non pronto a colpire ma disposto ad amare con tutta la sua miseria per renderlo divino.
Parecchi sono i tentativi nel tempo di sostituire al Dio eterno il dio occasionale, usa e getta (anche da parte di tanti ecclesiastici, “mestieranti del sacro”). Una canzone di Francesco Guccini, Dio è morto, degli anni ’60 del secolo scorso, non subito compresa e messa all’Indice, metteva in risalto un Dio del Padre a cui è stato sostituito l’altro dio. La gente, «Nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo che hanno già, dentro alle notti che dal vino son bagnate, lungo le strade da pastiglie trasformate, dentro le nuvole di fumo del mondo fatto di città, essere contro ad ingoiare la nostra stanca civiltà”, ha trovato un dio morto. “Ai bordi delle strade… nelle auto prese a rate… nei miti dell’estate, dio è morto”. In “Una politica che è solo far carriera. Il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto… nei campi di sterminio… coi miti della razza… con gli odi di partito, dio è morto».
Il Dio in cui tutti dovremmo credere è un Dio geloso, strabiliante, giacché diverso: amabile, misericordioso, attento, compagno di vita, si fa trovare nella quotidianità, nel misero, nel carcerato… in tempi e in luoghi non sospettabili. È un Dio non etichettato e non ingabbiato, non definibile, è il “tutt’altro” che di Lui si potrebbe dire, poiché nel momento in cui abbiamo una definizione compatibile da tutti, quello che abbiamo concordato non è Dio.
Il mio Dio si fa cercare continuamente: nella lettura, nell’esperienza personale e degli altri, nella preghiera… Egli è il Dio dell’attesa, della speranza senza fine. È il Dio risorto dopo tre giorni che continua ad apparire per confermare che è vivo e ci precede nel Regno dei cieli.
Bisogna avere fiducia in una generazione che tende verso un nuovo mondo, verso «un futuro che ha già in mano una rivolta senza armi» poiché «in ciò che noi crediamo… in ciò che noi vogliamo… nel mondo che faremo, dio è risorto».
Il non voltarci indietro ma camminare per una scoperta quotidiana della nostra gioia, dovrà essere l’obiettivo del viaggio terreno; lo sconforto non dovrà mai abbandonarci, poiché dopo la notte c’è il giorno, dopo il buio si prospetta la luce e… dopo la morte, c’è la felicità eterna, resurrezione senza fine. Anche quando perdiamo la speranza, è lì che bisogna continuare a sperare: il Dio di Jawhè non è ingannevole, la sua fedeltà è immensa e non tramonta mai.
SALVATORE AGUECI