di Marcello Benfante, con le fotografie di Angelo Pitrone e l'illustrazione di Vito Angelo
Interamente intessuta e innervata di autobiografia, la poesia di Nino De Vita ha un suo naturale cominciamento, una sua filogenesi biologica e letteraria, nel giorno fatidico della nascita.
Si apre così, d’altronde, Cutusìo (1), con quella lirica, in un certo senso evangelica, intitolata “Ottu giugnu Millenuvicentucinquanta”. che a Vincenzo Consolo richiamava alla mente il “Canto notturno” leopardiano.
“Nasce l’uomo a fatica
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in quel suo principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato”.
Così è pure nei versi asciutti, arsicci, impietosi di Nino De Vita: la giornata è calda, la natura inaridita. I ragazzini giocano col fango, come a ricreare il mondo. E il padre cammina e sospira, inquieto, tormentandosi le mani. Non sa dove metterle. Non sa se entrare o uscire. Restare o andare. Il parto appare difficile, rischioso. La mammana, femmina esperta, storce la bocca perplessa. Allora il padre, preoccupato, pinsirusu, monta sul calesse, parte. E torna con un uomo anziano, dalle guance ricamate da rughe: ‘u dutturi.
Bisognerà dolorosamente scegliere tra vita e vita, morte e morte. La scelta, atroce, è di non pensare al bambino per salvare la madre. Il forcipe dilania le carni, le attanaglia. Infine dal ventre scaturisce una massa di carne annivuriata e sanguinante. “‘U picciriddu è mortu”, sentenzia il dottore. Ma la madre è viva. Una vita si spegne, l’altra resiste ancora. Si può dunque ringraziare Dio.
Ma forse il dottore ha visto, sentito, intuito un respiro che si leva dal bimbo esanime, e ora colpisce, scuote, friziona, massaggia il corpicino straziato, e vi soffia dentro la bocca un fiato caldo, lo spirito vitale, per due lunghe ore. Poi, finalmente, dall’esserino martoriato e nìvuru prorompe un pianto.
Sono una primigenia agonia, dunque, i travagliati natali di Nino De Vita. Una lotta con la morte per nascere, per uscire alla luce. Questo è il cominciamento. L’eterno ricominciamento. Il venire al mondo. In un mondo particolare che è approdo e insieme scoglio da cui salpare.
Il caso e il luogo, a comporre una sorta di oroscopo.
“Sono nato, l’8 giugno del 1950, in una delle cento e passa contrade di Marsala: un lembo di terra posta davanti allo Stagnone, con Mozia, Santa Maria, l’Isola lunga e le Egadi, aggobbate, in fondo. La contrada è Cutusio, fatta di case sparpagliate o raggruppate in bagli, di ulivi, di giardini di agrumi” (2).
In cui stavolta riecheggia Pirandello:
“Io son figlio del Caos; e non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del genuino e antico vocabolo greco Kaos”.
Anche per Nino De Vita il venire al mondo, nell’enclave arcaica di Cutusio, è un precipitare in una forma del destino.
“Non ho trovato a casa mia, quando sono nato, un solo libro; tranne un minutissimo libro che conteneva i Vangeli e che mia madre teneva al capezzale. A Cutusio, quando io sono nato, non c’era luce, non arrivavano i giornali. Il dialetto è stata la lingua che ho, in assoluto, appreso”.
Eppure, in questo luogo remoto, refrattario al progresso, il giovane Nino si impegna a leggere molto, a tenere un diario, a scrivere, benché il padre gli esprima un atavico scetticismo contadino: “Chissa, è strata ch’un spunta”.
Una strada senza sbocco. Un vicolo cieco.
Per uscire dal liquido amniotico di questo luogo conchiuso e separato, autoreferenziale, che è Cutusio, il mezzo espressivo era (o sembrava) obbligato: la lingua ufficiale della comunicazione. L’Italiano della scuola, dei libri, del canone letterario.
“Fino ai miei trent’anni io ho scritto, poesia soprattutto, ma anche prosa, racconti, solamente in lingua italiana”.
Lo scrittore va così forgiando i propri strumenti di fuga, simili al forcipe del tenace ostetrico. E infonde in questo tenace studio lo spirito sacro della conoscenza.
Poi, “improvvisamente, il mio registro di scrittura cambia e va verso il dialetto”.
È un ritorno alle origini che lo folgora come sulla via di Damasco.
Nino De Vita è divenuto nel mentre un docente e ora insegna presso il Liceo Scientifico di Trapani.
Capita un giorno che un alunno, rientrando in classe, lasci socchiusa la porta. Il professore gli dice allora: “Unn’a lassari a ciaccazzedda”, non lasciarla socchiusa.
È un’espressione tipica di Cutusio che l’alunno a cui è rivolta, come anche tutti gli altri ragazzi, ovviamente, non comprende: “Ma che parla, arabo, professore!”.
Il dialetto, la lingua natia, l’arabica eco di un microcosmo perduto, riaffiorano così, con moto spontaneo, inatteso, ostinato, come ubbidendo a un impulso determinato a non morire, a non scomparire.
Tornando a casa, Nino De Vita amaramente riflette proprio su questo inesorabile disparire, su questa estinzione irrimediabile, di una lingua e di un spazio etno-antropologico, che tuttavia caparbiamente resistono ancora e talora riemergono dai visceri.
“Fu così che progettai di salvare le parole che si erano più logorate. Le parole del dialetto marsalese; le parole che io avevo, nella mia fanciullezza, adoperato”.
L’arca di questa preservazione sarà la poesia, intesa non già come un laboratorio di restauro o un museo di ombre, bensì come un luogo vivo in cui respira una cultura antica e un intero mondo.
Salvare le parole. Viene subito da pensare a Elias Canetti. Alla sua “storia di una giovinezza” che ha per titolo La lingua salvata.
Perdere la lingua è una mutilazione, un’amputazione, una castrazione.
“Il mio più lontano ricordo è intinto di rosso”, scrive Canetti. Rosso come il sangue che sgorga vivo da una ferita. È un ricordo che risale a una prima infanzia, di un uomo sorridente incontrato sulle scale di casa.
“Mostrami la lingua”, dice quest’uomo. E quando il bambino la tira fuori, ecco che l’uomo estrae dalla tasca un coltellino e dice, per scherzo ma terribilmente: “Adesso tagliamo la lingua”.
E già con la lama fa il gesto di toccarla, ma poi giunge la grazia, ancorché provvisoria: “Oggi no, domani”.
La condanna al mutismo, all’impossibilità di esprimere se stessi, di procreare parole, linguaggi, storie, è solo rimandata a un terribile domani in cui fatalmente la vita verrà zittita.
Prima del silenzio di domani, occorre salvare le parole. Impresa epocale che, s’è già detto, equivale a salvare un mondo.
Elsa Morante ha voluto affidare ai ragazzini questo compito, questa missione salvifica.
Così fa anche Nino, con il contributo delle madri, delle donne che sono la fertilità del nostro esistere.
E pure degli animali, della natura tutta. Degli alberi e dei lombrichi. Dell’erba e degli uccelli.
Senza ideologie astratte, teoremi, tesi, ma nella concretezza reale dei racconti, a partire da quelli che hanno per protagonisti i bambini e l’universo assoluto dell’infanzia.
Una poesia narrativa, dunque, che nell’alterità di una parola salvata, di una lingua trattenuta nel suo tramonto, prima che venga il domani a bruciare l’ultima residua testimonianza, trova il modo autentico, verace, di esprimere il senso tragico e insieme sublime della vita.
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1) Nino De Vita, Cutusìo, Mesogea, Messina, 2001
2) Nino De Vita, The Poetry of Nino De Vita – A Bilingual Anthology, Introduction and Translation into English Verse by Gaetano Cipolla, Legas, Mineola, New York, 2014, p. 26