di Marco Marino e Marcello Benfante, con le illustrazioni di Marco Maldonato
Tra le più significative e originali personalità della poesia italiana contemporanea, Nino De Vita ha fatto della sua poesia in vernacolo alto un linguaggio universale, parola umana di rara limpidezza e profondità. Così come la sua conchiusa Cutusio, microcosmo edenico, si è aperta al mondo ed è diventata mondo, in forza della sua verità, della sua stratificata storia.
Nei versi di Nino De Vita, nelle sue narrazioni tra mito e favola, c’è dunque un universo intero che nella sua antica koinè esprime e rinnova un’emozione presente, e nella memoria, conservata e tutelata, prefigura il futuro come uno scorrere necessario del tempo, un divenire ineluttabile.
È una cosa curiosa. Non capita spesso di trovare una data precisa per l'inizio di un percorso poetico. Tu, però, ce l’hai, e c’è pure un luogo. Erice, 22 febbraio 1991. Il luogo e la data di nascita di tuo figlio Alessandro. La data apposta sotto la primissima edizione di Bbinirittedda, tirata in 120 copie per gli amici. Hai parlato spesso dell’intuizione di scrivere in versi, della porta a ciaccazzedda, io oggi ti vorrei chiedere invece perché legare a doppio filo la tua primissima opera in versi a quel momento della tua vita: è una sorta di doppia nascita?
Ho cominciato a lavorare al mio primo libro in dialetto, Cutusìu, nell’autunno del 1980. L’ho pubblicato, appena definito, in una edizione privata stampata a Trapani e dedicata agli amici, nel 1994 (e si tratta del libro a cui verrà assegnato, nel 1996, il Premio “Alberto Moravia”). Quando ho deciso di pubblicare, in occasione della nascita di mio figlio, il racconto Bbinirittedda, il lavoro su Cutusìu si trovava a buon punto: lo avevo infatti interamente scritto e lo stavo attentamente rivedendo. Ma volevo festeggiare, in quel 1991, la nascita di Alessandro. Non sapevo cosa di preciso fare. Ci pensai un po’. Poi mi decisi. Presi un racconto di Cutusìu, quello che mi sembrava più definito e lo feci stampare. A ripensarci ora, l’osservazione che mi viene posta è interessante. Sì, questo mio gesto si potrebbe considerare come una doppia nascita. Due figli: uno carnale e uno cartaceo. La sorpresa per me fu quella di ricevere con Bbinirittedda (perché, anche qui, come con Cutusìu, si trattava di una pubblicazione fuori commercio) subito diverse recensioni. La prima fu quella di Franco Loi su “Il Sole 24 Ore”, poi quella su “L’Osservatore Romano” a firma di Angelo Mundula. Recensioni uscirono su “Stive”, “Arenaria”, “Il Belli”... Ma ricevetti anche, diciamo così, affettuosi rimproveri, perché il libro recensito non si trovava. Lo recensivano e chi lo cercava non lo trovava.
«Ma eu ddumannu assai,/ ddumannu assai si vogghiu/ mòriri scanusciutu?». In Omini sono parole che indirizza a Leonardo Sciascia un altro De Vita, un pittore di Chiaramonte Gulfi che non voleva che le sue opere venissero presentate a Palermo dal grande scrittore siciliano. Questa storia ci ha sempre fatto pensare al tuo rapporto con l’anonimato, a quelle tue plaquettes riservate agli amici, al Premio Moravia del '96 quando Enzo Siciliano nella motivazione scrive: «De Vita pubblica alla macchia, su riviste, per piccoli editori. Lo si vuole premiare per questo, per sottoporlo all’attenzione di un vasto numero di lettori». Qual è il tuo sentimento nei confronti dell’anonimato e della fama poetica? Oggi che sei diventato oggetto di studio, di tesi di laurea, sei invitato nei maggiori festival di poesia, recensito dalle firme più importanti della critica … Vorresti tornare più indietro? Spegnere i riflettori del successo?
Dico subito che quando scrivo lo faccio prima di tutto per una mia esigenza espressiva. Penso a una storia e mi prende il desiderio di scriverla, che si tratti di una storia vera, con personaggi veri, o di una storia del tutto inventata. La scrivo velocemente, direttamente in versi, con il piacere che sempre dà scrivere una storia. Poi ritorno a lavorarci, a lavorarci... Se mi accorgo che quanto ho fatto non va bene allora lo metto da parte, altrimenti comincio a pensare a una sua pubblicazione, ai lettori che a questa storia si avvicineranno. Si può scrivere e conservare le proprie cose (e sono credo pochi quelli che lo fanno; sto pensando a Bufalino, prima che fosse scoperto). Oppure si scrive per pubblicare. Io appartengo a questa seconda categoria. Non rifuggo, in tutta sincerità, dall’essere conosciuto, riconosciuto (un “successo” che, per un poeta, almeno riguardo alle vendite, non è assolutamente equiparabile a quello del narratore). Non lo cerco, non mi affanno per questo, ma se un apprezzamento viene riservato alle cose che scrivo e pubblico allora ben venga, ne sono contento; ma, preferibilmente (e non sempre è possibile), assistendovi da qui, chiuso in questa mia casa di Cutusio, senza riflettori puntati.
Il tuo fondamentale registro espressivo è il dialetto siciliano, e per di più in una sua particolare forma, quella di Cutusio. Ritieni di aver chiuso, in termini poetici, con l’esperienza del verso italiano, che peraltro ha segnato il tuo esordio ufficiale con “Fosse Chiti”?
Iniziato il lavoro con il dialetto l’esperienza del verso italiano è stata messa da parte; una vena, vivissima, che si è come prosciugata. Solo occasionalmente, da allora, ho scritto versi in italiano. Ricordo di aver composto una poesia dedicata a Sciascia in occasione dei dieci anni dalla sua scomparsa. Questa poesia si trova adesso raccolta in un libro sullo scrittore di Racalmuto che ho da poco finito di scrivere. Difficile mi sembra che io ritorni a comporre versi in italiano.
E con la prosa, critica o narrativa, qual è il tuo rapporto? Di secondarietà, di integrazione, di occasionale divagazione? Oppure è, o almeno potrebbe essere, un rapporto più intrinseco, più necessario?
Ero giovanissimo quando ho cominciato a scrivere versi. E in verità a 16-17 anni la tentazione di esprimermi in prosa c’è stata. Ho anche fatto dei tentativi, scritto alcuni racconti, ma tutto è finito lì, mi sono accorto che mi mancava, se così si può dire, il respiro lungo del prosatore. Quando, a trent’anni, mi sono messo a scrivere in dialetto, la tentazione della prosa si è di nuovo affacciata e per il semplice motivo che io dovevo questa volta propriamente “narrare”. E così ho scritto in prosa il primo racconto di Cutusìu intitolato “Ottu giugnu millinuvicuntucinquanta”, l’ho anche in questa forma pubblicato in una rivista “Lunarionuovo” che allora si stampava a Catania. Ma anche questa volta la cosa non è andata avanti, sono ritornato ai versi. La verità è che si è poeti o si è prosatori. I due “mestieri” assieme raramente (penso a Manzoni) convivono. E mi viene da affermare: guai al prosatore che vuole scrivere anche versi e guai al poeta che si avventura nei luoghi che sono del prosatore. Ho fatto una affermazione e subito devo contraddirmi. Perché a me questo pericolo è accaduto. Quando ho cominciato a scrivere in dialetto mi sono spinto nei luoghi della prosa, della narrazione. E tutt’ora mi accade, vivo questo pericolo. Cerco, con i versi, di avvicinarmi quanto più possibile al fatto narrativo, al racconto. È una cosa assai difficile. Mi trovo ad essere, nel testo creato, prosatore e poeta nello stesso tempo, lirico e no, lirico ma non troppo, prosatore ma non troppo, mi ritrovo a bilanciare la cadenza dei versi e la cadenza della prosa, a cercare di tenere i versi (perché alla fine di versi si tratta) in piedi e che non sbandino. E un po’, forse, sta proprio in questa commistione quella particolarità che c’è, sembra, dicono, nella mia scrittura.
Prima si accennava a Leonardo Sciascia. Com’è noto, ha rappresentato per te un punto di riferimento fondamentale, sia sul piano culturale che su quello personale, come maestro e modello, non solo di scrittura. A trent’anni dalla scomparsa, se ti fosse concesso di rivivere un momento insieme a lui, quale sarebbe?
I momenti sarebbero tanti. Ma il momento che di più mi piacerebbe rivivere è questo: essere assieme a Leonardo, in uno dei nostri spostamenti in macchina: io alla guida e lui accanto a me, a conversare, se da conversare c’era; oppure, come altre volte accadde, ritrovarmi con Leonardo qui nella mia casa di Cutusio, nel mio studio, o nella sua casa di Palermo, uno di fronte all’altro, seduti: in silenzio lui e in silenzio io.
Una domanda letteraria. Sciascia, dicevamo, è stato fondamentale per la tua formazione letteraria. Ma, accanto a lui, magari anche in subordine, quali altre figure autorali hanno influenzato maggiormente la tua formazione intellettuale?
Indubbiamente gli scrittori siciliani, in primis, i maggiori ma anche i minori, che ho letto in ogni loro opera; e voglio precisare: in ogni loro opera. Li ho letti, a partire da Verga, tutti. Alcuni di loro ho anche avuto modo di conoscerli e frequentarli; penso, oltre a Sciascia, a Consolo, a Bufalino, a Fiore... Degli scrittori che non ho avuto modo di conoscere, importanti sono stati, oltre al già citato Verga, Francesco Lanza, Stefano D’Arrigo con l’Horcynus, Pirandello (quello delle novelle)... Ognuno di questi scrittori (ma volutamente sono rimasto nel campo dei siciliani, ché ci sarebbe da tirare in ballo anche i nomi dei tanti scrittori non siciliani) ha seminato, ha “lasciato”, in me di sicuro qualcosa. Ma appena mi sono messo a scrivere, così quando io scrivo, ho sempre cercato e cerco, fortemente cerco, si capisce, di fuggire da loro, di non somigliare a nessuno di loro. Spero di esserci riuscito.
È bello vedere come moltissimi ragazzi si occupino di te, sia per studio sia come indagine letteraria. Molti giovani poeti ti consultano, ti chiedono consiglio. Che ne pensi della situazione culturale della Sicilia di oggi? E in Italia, in generale? Ci sono motivi, nella nostra isola, per praticare un ragionevole pessimismo o per formulare un volenteroso ottimismo?
Non ho le idee del tutto chiare, forse perché non conosco bene i contemporanei, sempre di più mi attardo a rivisitare gli “antichi”. Nonostante questo mi accorgo che in Sicilia c’è un gran bel fermento, tanti sono i giovani e i meno giovani che stanno scrivendo. E anche cose buone. Il problema è che siamo tutti quanti presi dalle “distrazioni”, da una vita che non ti lascia la possibilità di pause lunghe, lunghe di anni voglio dire, e di riflessione attorno al libro che stai scrivendo; c’è fretta: di scrivere un libro e subito dopo un altro libro e di pubblicarli, una industria editoriale che pressa sugli scrittori.
Quali sono i tuoi progetti a breve scadenza?
Il coronavirus ha bloccato due miei libri in uscita, con bozze già corrette e copertine scelte, già pronti per andare in stampa. Si tratta di una Antologia, presentata da Emanuele Trevi, in uscita presso “Le Lettere” di Firenze e che avrebbe inaugurato una collana di poesia diretta da Raoul Bruni e Diego Bertelli e di un mio piccolo libro autobiografico, in prosa, preparato per i miei settant’anni per le preziosissime edizioni Henry Beyle di Vincenzo Campo, a Milano, accompagnato da una acquaforte di Giuseppe Modica. Tutto rinviato. Un altro mio libro da pubblicare, come sopra accennavo, è il libro su Sciascia - sull’uomo, sull’amico - che da poco ho terminato.