di Salvatore Ferlita e Marco Marino, con le fotografie di Angelo Pitrone
«A chissu Nazzarenu, chi vvoli abbrazzari ’u munnu tinennu i manu nne sacchetti». Con questa dedica firmata da Ignazio Buttitta si chiude l’esilarante duello verbale tra il celebre poeta siciliano e il povero Nazareno, raccolto nell’ultima silloge di Nino De Vita, Tiatru. Per tutta la conversazione il lettore è convinto che sulla scena ci siano soltanto loro due, Nazareno e Buttitta, ma quando Nazareno lascia la casa del poeta portandosi dietro, senza pagarli, i libri che gli sono stati offerti, allora una voce sembra spuntare dal nulla: «Non torna più», dice. E Buttitta subito le risponde: «Torna».
Quella voce sbucata fuori da un’immaginaria quinta teatrale è la voce di Nino De Vita, il narratore. Che nei suoi racconti in versi si trova di continuo in questa strana posizione: non è né presente né assente. Utilizzando un certo linguaggio fotografico, potremmo dire di riconoscerlo sempre “di profilo”. D’altronde, non è raro trovare alcune foto che ne ritraggono solo la sagoma, il contorno della sua figura, nascondendo il volto e tutti i suoi tratti caratteristici. Quegli scatti appaiono come la migliore lettura del suo modo di entrare negli eventi che racconta: lui c’è, è lì, eppure resta defilato, quasi invisibile, attento a registrare ogni particolare, a ricordare ogni dialogo. Perché le storie, nel loro complesso, sono più importanti dei soggetti che le animano. Non è necessario guadagnarsi il primo piano: basta un posto sicuro per poterle vivere. E poi scrivere.
Anche noi oggi, proseguendo il nostro speciale dedicato ai 70 anni di Nino De Vita, Vita di un Naturalista, vogliamo provare a metterci in disparte, a commentare dall’angolo della scena l’opera di un poeta che ormai occupa lo spazio centrale del nostro personale panorama letterario.
Lo facciamo con un articolo a due voci, quelle di Salvatore Ferlita e di Marco Marino, una conversazione tra amici, mossi dal desiderio di fare di quella sagoma il focus dei loro obiettivi.
Salvatore, vorrei cominciare questa anomala chiacchierata chiedendoti come hai conosciuto Nino. Non te l’ho mai domandato. Hai scoperto prima i suoi versi e poi sei andato a caccia dell’autore? Io mi ricordo di averlo incontrato per la prima volta, diciasettenne, in libreria, alla Mondadori di Marsala. Avevo letto di lui sulla rivista Poesia di Crocetti e, ogni tanto, cercavo qualche sua silloge tra gli scaffali. Era da poco uscita A ccanciu ri Maria. Ci siamo messi subito a conversare di questo suo ultimo volumetto e siamo finiti per passeggiare insieme fino all’officina del meccanico in cui aveva portato ad aggiustare la sua auto.
Per me è stato al contrario. Prima ho incontrato Nino e poi i suoi versi. E ancora ricordo perfettamente la telefonata ricevuta sul cellulare: ero a Palermo, in via Ruggero Settimo, sotto i portici, forse stavo andando alla Feltrinelli, leggo questo prefisso “0923” e rispondo. Era un tale Nino De Vita, il quale aveva letto qualche mio pezzo su Stilos, s’era fatto dare il mio numero da Gianni Bonina e mi chiamava per dirmi che gli piaceva molto leggere i miei articoli dedicati agli scrittori siciliani. Allora gli ho chiesto: ma tu sei il Nino De Vita, l’autore di poesie? «Sì sì, mi risponde, ma poi magari ne riparliamo. Se ti servono libri io ho una bella collezione, incontriamoci, conosciamoci». Da lì scoppiò l’amicizia che davvero ha dato forma a un rapporto consustanziale. Adesso per me Nino è una specie di fratello maggiore, di amico, di confidente, di bibliotecario, di memoria storica. C’è la cassa di risonanza dei suoi versi. Insomma, da quella telefonata, non ci siamo più lasciati.
E quando hai scoperto i suoi versi?
Conosciuto l’uomo, ho conosciuto il poeta. E sono rimasto fortemente scioccato dal fatto che, avendo preso le mosse da Fosse Chiti, subito dopo mi sono ritrovato impantanato nel suo dialetto. Nino mi è sembrato una sorta di "Dr. Jekyll e Mr. Hyde" della letteratura: è nata in me la curiosità di capire cosa l’avesse spinto a dismettere quella pronuncia così cristallina, quasi da entomologo, di Fosse Chiti e mettere le mani nel magma del dialetto. Mi appassionavo, quindi, non solo ai versi, ma anche al caso letterario. Poi conoscendolo meglio, ho conosciuto meglio anche i suoi luoghi. Per cui s’è venuta a creare anche una corrispondenza tra la Cutusio che lui disegnava coi versi e quella reale. Ma solo conoscendolo ancor di più, ascoltando i suoi racconti, a un certo punto mi sono fatto l’idea che la vera Cutusio era quella che stava sui libri e non era quella che visitavamo quando andavamo in giro insieme. Perché quegli spazi nel frattempo si erano trasformati, le campagne avevano cominciato a subire il vilipendio delle serre. Nei suoi versi, però, tutto si conservava in vitro e continuava ad animare l’immaginario che aveva alimentato la sua infanzia.
Chi da Fosse Chiti passa a Cutusìu, è vero, si trova spiazzato dalla lingua. Eppure, trovo che Nino non abbia mai cambiato la materia del suo poetare. Prima lo definivi entomologo, noi nel nostro speciale su TP24 lo abbiamo chiamato “naturalista”: penso che tutto il suo percorso poetico sia prova di una grande coerenza tematica. Mi vengono in mente, mentre parliamo, i versi dell’epigrafe di Cutusìu: «Timpuni assulazzatu Cutusìu/ ciari ggiannuffi, rrunzi,/ chiàppari e affucamuli …». Tutta natura, solo natura, e nemmeno un verbo in quel componimento!
Vado a memoria, ma forse già Vincenzo Consolo aveva messo in evidenza che nelle poesie di Fosse Chiti si erano aperte delle “falle” dal punto di vista linguistico: a leggere con attenzione, diceva, ci accorgiamo di una segnaletica che ci porta dalle parti del dialetto, l’uso delle parole “graste” o “giummo”, ad esempio. Erano le spie di queste crepe che si aprivano nel corpo vivo della lingua italiana. Già lì è come se il poeta avesse urlato un grido d’allarme, che solo un lettore avvertito ed empatico come Consolo poteva riuscire a scorgere. Successivamente si passa a una pronuncia, quella dialettale, che è davvero una specie di liquido amniotico, che rifonda una natura nuova e, quando prende corpo, non abbandona più il lettore. Mai come nel caso di Nino ho avuto la sensazione della vischiosità così forte di una lingua poetica, a tal punto dal sentirmi addosso certi versi martellanti, che funzionano solo in quella lingua.
Vincenzo Consolo, oltre che essere un suo carissimo amico, è stato anche uno dei suoi lettori più attenti e appassionati. A proposito del dialetto, nella prefazione di Cutusìu, scrive qualcosa di molto interessante di cui vorrei parlare con te: «Ci sembrano, questi poeti in dialetto, i veri poeti della fine. Ci fanno pensare a quei poeti e scrittori che presentendo la caduta di Bisanzio, la fine di un mondo, di una cultura, si misero a scrivere in greco classico, in lingua attica». Nino De Vita, “poeta della fine”. Ti convince? Io, piuttosto, penso a Nino come a un “poeta dell’inizio”, un poeta dei cominciamenti: la sua poesia è sempre legata, in qualche modo, a una nascita.
Da un lato, Consolo mi convince. C’è qualcosa di apocalittico nella poesia di Nino, il tentativo di fare una cronaca della fine vestendo i panni del testimone. Perché c’è, sì, nei suoi lavori, la fine della civiltà contadina, sarebbe la cosa più semplice da citare. È vero quindi che è un poeta della fine, ma è anche un poeta delle metamorfosi, delle trasformazioni. E in questo caso hai ragione tu; spesso Nino si sofferma a contemplare il mistero della nascita, del cominciamento. Ma è sempre qualcosa in divenire. Pensiamo alle trasformazioni che hanno cambiato quella vita ai margini che è la vita di Cutusio, quando Nino dedica una poesia all’irruzione della corrente elettrica nella contrada: vengono riportati minuziosamente tutti gli stravolgimenti, la felicità e la diffidenza, che una simile rivoluzione comporta.
Poeta della fine o delle metamorfosi. Mi accorgo che cerchiamo in ogni modo di aggirare lo stigma del “poeta dialettale”. A noi - possiamo confessarlo? - l’aggettivo “dialettale” non piace: è riduttivo, inadeguato, non rende affatto l’universo e la profondità della poesia di Nino. Che fare, allora, per assolverlo da questa colpa metafisica?
Eri stato tu a dire, durante una presentazione, che dovremmo allargare lo sguardo. A volte stiamo troppo con la lente di ingrandimento sulla sua pronuncia. Perché non cominciamo a considerare Nino come un poeta mediterraneo? È una suggestione molto intensa, che ha a che fare con la storia, con la geografia, con l’antropologia. Dire che è un poeta mediterraneo significa anche staccargli di dosso questa etichetta, che può sembrare anche imbarazzante, del “poeta dialettale”. È stato poeta in lingua e ora è poeta in dialetto. Ma questa lingua, soprattutto per chi frequenta i suoi libri, ha dismesso lo stigma di lingua sezionale, per diventare la lingua dei suoi lettori. Per cui anch’io mi sento in qualche modo appartenere a Cutusio.
Una lingua nostra, proprio così. Dicevi prima che ci sono dei versi che ti ritornano spesso in mente, che oramai fanno parte del tuo frasario essenziale.
Innanzitutto, questo che ora ti cito, non è un Nino De Vita delle origini, è una delle poesie che ci ha offerto in una delle sue raccolte più ravvicinate, Tiatru. «Un omu sugnu chi/ si mmiaca ri palori,/ ch’i macinìa, vizziusu, strammatizzu…». È l’uomo fatto di parole, Berengario, queste sue parole mi tornano in maniera ossessiva, forse perché anche io, in qualche modo, in sedicesimi, sono uno che si ubriaca di parole. Quando ho letto questi versi, te lo giuro, ho sentito vibrare qualcosa, che mi ha fatto capire che un poeta, al di là della competenza stilistica e della capacità di sperimentare – perché Nino è uno sperimentatore pur utilizzando una lingua della retroguardia -, al di là di tutto, dicevo, quando il destino di un personaggio si viene a sommare al destino di chi legge, davvero capisci che c’è qualcosa di universale, che abbraccia una comunità di lettori che può essere sterminata. Altri versi che non mi hanno più abbandonato sono in A ccanciu ri Maria: «Eu scrìvila vulia/ sta storia. E ammeci ’i cosi/ ch’ avia a cuntari ’un si/ facìanu». Del corpo a corpo con l’immaginario, il poeta che demiurgicamente vuole dare corpo ai versi, un po’ come l’ebanista che si mette ogni giorno a fare la stessa sedia, però, a volte, non gli viene. E qui c’è tutta la componente artigianale della poesia di Nino. Sono versi che oramai fanno parte della mia memoria letteraria. Che mi accompagnano come epigrafi irrinunciabili.