di Lavinia Spalanca
«I medici e gli infermieri continuano a far bene il proprio lavoro nonostante la sanità italiana», ha detto Gino Strada in una recente intervista. Applichiamolo alla scuola e abbiamo radiografato il nostro Paese. Per rimanere alla metafora sanitaria, si può affermare con amarezza che gli inse-gnanti, soprattutto nostrani, sono come dei medici costretti a curare i propri pazienti con farmaci scaduti.
Com’è possibile questo paradosso? E cosa c’entra tutto questo con la recente emergenza Covid? Proveremo a rispondere ad entrambi i quesiti.
Com’è noto, la Lombardia è la regione maggiormente in affanno in questo periodo, ossia quella che negli ultimi decenni, complice l’interesse degli amministratori locali, ha foraggiato lautamente la sanità privata, riducendo di contro la spesa pubblica, come se la salute fosse mero appannaggio di chi sta bene economicamente. Il risultato è che lo scoppio della pandemia ha mandato in tilt gli ospedali, scoprendo le falle di un sistema ormai carente di strutture e personale. Qualcosa di analogo ha riguardato la scuola.
In quasi due secoli di Stato unitario, l’incompetenza mista alla malafede ha prodotto, con risultati eloquenti, quella che Giovanni Floris definisce «la fabbrica degli ignoranti». Si tratta di una malattia degenerativo-cronica, il cui iter va ripercorso fin dall’inizio. Quando bisognava “fare gli italiani”, ossia nel secondo Ottocento, a prevalere era una visione paternalistico-autoritaria – quella rimandata dal libro Cuore, per intenderci – cui non corrispondeva però alcuna cognizione della realtà concreta, alcuna percezione degli squilibri fra Nord e Sud, centro e periferia, scuole urbane e scuole rurali. Come lo stesso De Amicis documenta nel Romanzo d’un maestro, scritto lo stesso anno di Cuore (1886), a fronte della propaganda nazionalistica le istituzioni scolastiche esibivano muri gocciolanti, maestri raffreddati e tossicchianti, classi pollaio sino a 50 alunni, genitori ingrati che puntavano il dito accusatorio sul povero maestro rurale, peraltro pagato pochissimo, con uno stipendio pari a «centoquaranta lire di meno di quello offerto a una guardia campestre».
Coi primi del Novecento la situazione cambia radicalmente, e si passa alla dimensione selettiva e gerarchica dei “pochi eletti” – inaugurata dalla riforma gentiliana del ’23. Se è vero che quest’ultima esibiva una vena fortemente elitaria – favorendo l’accesso dei candidati maschi alla carriera direttiva – al contempo incoraggiava l’innalzamento della qualità degli studi, soprattutto in senso umanistico (e c’era da aspettarselo da un filosofo come Gentile). A partire dagli anni ’40 la priorità sembra invece l’ingresso delle masse nella scuola, con la conseguente rivalutazione delle discipline scientifiche e tecnologiche, e il relativo elogio del ‘saper fare’. Negli anni ’60, in concomitanza coi governi di centro-sinistra, le leggi sull’istruzione incamerano una visione partecipativa e democratica, ma che rivela le sue incoerenze allorché il progetto riformistico incrocia le esigenze del mondo economico, e ciò si traduce, alla lunga, in un colpevole permissivismo responsabile del cronico livellamento verso il basso della classe studentesca. Si degenera così nella più recente tendenza inclusiva, nel senso di un’apertura indiscriminata a “tutti”, che sostituisce il, peraltro legittimo, diritto all’istruzione al dovere di studiare, con la conseguente erosione di qualsiasi principio meritocratico. Una tendenza, quest’ultima, che convive in perfetta armonia col trionfalistico culto del digitale - restaurazione di vecchi miti positivistici - funzionale a fare della scuola «un mercato intorno al quale si organizzano altri mercati», come afferma con lucidità Alfonso Scotto di Luzio.
Con la stessa feroce tendenza che ha imbrigliato la sanità italiana – privatizzare – così la scuola è stata asservita nel tempo ad esigenze meramente economiche, e la responsabilità di questa degenerazione è politicamente trasversale. Ci si aspetterebbe un elogio del digitale da parte delle forze più conservatrici – quelle, per dirla con gergo vetusto, a favore dei “padroni delle fabbriche” – e invece anche la sinistra progressista stravede per l’innovazione tecnologica, forse per il semplice motivo che il denaro fa comodo a tutti. Con la recente pandemia questa tendenza si è aggravata pesantemente in seguito alla famigerata “didattica a distanza”. Il pensiero iniziale è stato più o meno questo: “proviamo, non c’è altro da fare, tanto fallirà per colpa degli insegnanti incapaci”. Quando questi ultimi si sono rivelati invece all’altezza della situazione, e soprattutto animati da un forte senso del dovere e in alcuni casi da un’autentica passione professionale, si è intuito che questa nuova “didattica” poteva protrarsi ad oltranza, ben oltre l’emergenza sanitaria. Del resto, per rimanere in termini finanziari, il vantaggio era duplice: da una parte risparmiare sui costi della scuola, giacché tutto grava sulle connessioni private di insegnanti e famiglie, dall’altra eliminare qualsiasi responsabilità in caso di infortunio sul lavoro, giacché quest’ultimo si svolge fra le quattro mura domestiche. Ma il vero beneficio è quello di asservire definitivamente la scuola allo strapotere delle multinazionali – ossia i proprietari delle piattaforme digitali che detengono i dati sensibili di docenti e alunni – con la scusa d’innovare la scuola e metterla “al passo coi tempi”.
Perché non riaprire la scuola come in tutti i Paesi europei? Perché tutti i nodi vengono al pettine. Quando c’è il pettine, direbbe Leonardo Sciascia. Il balletto farsesco cui assistiamo quotidianamente, le ipotesi più disparate smentite il giorno dopo, ricordano stranamente le dichiarazioni incoerenti di certi virologi – e qui torniamo al paragone con la sanità italiana. Tranne rari casi – come il serissimo professor Crisanti – spesso si ha la sgradevole impressione che il sedicente esperto parli per interposta persona, adattando le verità scientifiche al padrone di turno. Per cui si può dire tutto e il contrario di tutto, destabilizzando la popolazione inerme che si affida fiduciosa al parere degli scienziati, per ricavarne ipotesi sempre più incoerenti o tendenziose. Ma la logica c’è, e lo sapeva bene Vittorio Alfieri, come scrive nel trattato Del principe e delle lettere (1789): «non si sono visti giammai, né mai si vedranno, sorgere degli alti matematici dove non ci siano scuole e protezione di governo: né si sono mai scoperte importanti verità nelle scienze, se i potenti non vi hanno prestato la mano; queste scoperte tutte, noi le dobbiamo non meno alla borsa del principe, che all’ingegno dell’osservatore». Credo che non ci sia bisogno di alcun commento.
Per quanto concerne la scuola, che a parte la digitalizzazione selvaggia non reca particolari interessi economici al Paese, non si ritiene necessario progettarne seriamente la riapertura, affrontando i problemi connessi all’edilizia scolastica, alle classi pollaio, all’impossibilità di garantire il distanziamento sociale come avviene nel civile Nord Europa. Il motivo è semplice. Gli alunni non votano. E se proprio si deve fare qualcosa è per dare il contentino alle famiglie, che rischiano a settembre di doversi nuovamente destreggiare fra figli e lavoro. Affiorano allora le congetture più varie – e si pensi a certe frasi sibilline come “aumentare il tempo scuola”, a patto ovviamente di mantenere inalterata la già indecorosa retribuzione docente – spesso coincidenti col classico strumento dello “scaricabarile”. Se la vedano i Presidi e i Sindaci, riadattando le strutture comunali – musei, oratori… - alle esigenze scolastiche. Il risultato? Il caos più totale. Questione non da poco riguarda inoltre l’impiego massiccio della tecnologia, che ha prodotto fondamentalmente due risultati: alienazione nei docenti, già trasformati da tempo in impiegati dell’intelletto e adesso de-classati ad operatori terminalisti, call center parafulmine, decifratori di scartafacci inviati dagli studenti sul cellulare a mezzanotte; automatismo negli alunni, soprattutto i più piccoli e i più esposti a questa minaccia – e si legga in tal senso l’accurato volume del neuroscienziato Manfred Spitzer Demenza digitale. Come la tecnologia ci rende stupidi – che hanno quadruplicato l’esposizione ai media, amplificando i disturbi già canonici delle nuove generazioni: deficit dell’attenzione, scarsa concentrazione, incapacità di memorizzazione, perdita di socialità, mancanza di autocontrollo, depressione.
Perché nessuno si ribella a tutto questo? La sanità in mano ai privati e la scuola in mano alle multinazionali? Migliore risposta a questa domanda ce la fornisce lo stesso Spitzer: «I politici sono vincolati ai media; attaccarli significa farsi annientare. Proprio per questo alla fine non succede niente».