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02/07/2020 06:00:00

C'era una volta la vacanza

di Lavinia Spalanca

Estate. Tempo di vacanze. Ricordo ancora, quand’ero piccola, le dieci valigie di mia madre accatastate sui binari roventi della stazione centrale e l’implacabile piano messo a punto da mio padre: wagon-lit Palermo-La Spezia delle ore 9:30, arrivo a destinazione alle ore 6:50. Il mattino dopo, svegliata di soprassalto, spiavo avidamente dalla cuccetta il paesaggio intravisto fra i varchi delle gallerie: Vernazza dalle case multicolori a strapiombo, il bianco fotogramma del mare all’alba, le prime luci sui pinnacoli liberty, la spiaggia cinerea di Monterosso… Una cosa è certa, nell’incertezza dei ricordi: la vacanza era un tempo sospeso, un arcobaleno tra la fine e l’inizio della scuola, una fuga dalle noiose occupazioni, un rito laico contrapposto alla ritualità ordinaria, e alle sgradevolezze del quotidiano.

Cosa rendeva speciale la vacanza? Cosa la sottraeva alla normalità dei giorni uguali ai giorni? Cambiare latitudini, ascoltare nuovi suoni, gustare altri cibi? O forse, piuttosto, dimenticarsi di sé e del mondo, fare il vuoto attorno e mondarsi dalle incrostazioni di un intero anno? «Detesto il concetto di vacanza intelligente - scriveva Giorgio Manganelli - mi pare presupponga che l’anno sia tutto idiota, eccetto quei quaranta giorni». Ecco che l’autore di Hilarotragoedia coglieva già la mercificazione della vacanza ad uso industriale, seppur a vantaggio di un’industria culturale, il tentativo d’irreggimentare un’oziosa digressione piegandola alle logiche di mercato. E oggi? Con in più l’aggravante di nefaste pandemie che incoraggiano l’isolamento o, in modo opposto ma speculare, l’euforia da assembramento? Dai tempi di Manganelli, e dai nostri, un oggetto si è prepotentemente interposto tra noi e la vacanza, vera e propria appendice del corpo umano: lo smartphone! Strumento anch’esso intelligente, senza dubbio, ma destinato ad instupidire chi ne fa (ab)uso, a piegarlo alle sue voglie, compresa quella di ‘vacanza’.

Vacanza mentale, più precisamente, ossia il bisogno di non pensare e distrarsi, di occupare il tempo in inutili occupazioni, tanto superflue quanto redditizie per il mercato, foraggiato da miliardi di utenti connessi senza limiti all inclusive. Il motivo di questa ‘scelta’ è fin troppo ovvio: specie per le generazioni nate nel Duemila - quelle che Twenge chiama con felice formula «iGen», ossia la generazione iperconnessa ad internet – il cellulare funziona da cordone sanitario, comfort zone per sfuggire agli attacchi del mondo esterno, al confronto con gli altri, ai propri fallimenti esistenziali. Ma è il cane che si morde la coda. Più tempo si trascorre in tal modo, più si è destinati a diventare vittime e al contempo complici di un sistema cinico di mercato, e dunque incapaci di crescere, di diventare grandi ed entrare nel mondo reale. Gli adulti, del resto, non forniscono un bell’esempio. I genitori ‘abbonati’ ai social, che svuotano in apposite latrine mediatiche le proprie frustrazioni, il desiderio di rivalsa, l’aggressività non disciplinata dalla cultura, non possono certo ammaestrare quei visi pallidi muniti di cuffiette (si spera) rinchiusi nella cameretta sino all’alba, a visionare contenuti per adulti.

Se la vita si è trasformata in una vacanza, ossia in una perenne distrazione dalla vita stessa, coi suoi problemi e le inevitabili prove da affrontare, in cosa si è trasformata la vacanza? In un impegno, nel senso del più assoluto disimpegno. Il primo pensiero, anche sotto l’ombrellone o in fuga verso un’ipotetica meta, è quello di controllare i messaggi - quasi tutti vocali ormai - i post, le email, e poi chattare, videochiamare, giocare, fare sesso virtuale… Anche mentre fanno jogging la mattina presto, anziché contemplare in perfetta solitudine i gabbiani che sorvolano le maestose falesie di argilla e arenaria quarzosa, nel paese dove vivo da qualche anno, l’unico pensiero dei miei simili è quello di parlare al telefono correndo, magari sollevando il cellulare ad altezza d’orecchio nell’intento di contrastare il fragore delle onde sugli scogli. E che gioia incurvarsi sul telefono al tavolino di un bar, regredendo all’infanzia mentre si gioca a tetris, anziché guardare in faccia il tuo interlocutore! Povero Wilde, che nel saggio L’anima dell’uomo sotto il socialismo aspirava alla ‘schiavitù delle macchine’, ossia le macchine al servizio dell’uomo: «Attualmente le macchine competono contro l’uomo. Nelle condizioni giuste saranno un servitore dell’uomo. Non c’è alcun dubbio che questo sia il futuro delle macchine, e come gli alberi crescono mentre il signorotto di campagna dorme, così, mentre l’umanità si diverte o gode di piaceri culturali – i quali, e non il lavoro manuale, sono il fine dell’uomo – o fa cose piacevoli o legge cose piacevoli, o semplicemente contempla il mondo con ammirazione e delizia, le macchine faranno ogni lavoro necessario e spiacevole».

Peccato che a distrarci dalla lettura o dalla contemplazione del mondo sia proprio l’oggetto che ci portiamo appresso ovunque, che non ci abbandona nemmeno nell’intimità, in una romantica cena a lume di telefono o in un colloquio fra amici iperconnessi. Wilde, da vero intellettuale, non poteva certo immaginare che l’individuo sarebbe divenuto schiavo di una macchina, finendo per conformare le sue abitudini e i suoi piaceri – di certo poco culturali – alle suadenti seduzioni del neocapitalismo più selvaggio. Altro che socialismo! Nell’era social siamo tutti sociopatici e arrabbiati, depressi e disillusi, disimpegnati e occupati in futili attività, apatici e nevrotici. A ciò si aggiunge la recente pandemia, che incoraggia la legge del sospetto, del distanziamento umano, del ripiegamento preventivo. Che cosa ne sarà di noi?

Concludo con un fotogramma delle mie attuali vacanze. Un ragazzino alle tre di un assolato pomeriggio. Seduto su una lamiera contorta, sigarettina in mano e mascherina, cellulare in mezzo alle gambe. La trasgressione (sigaretta) confutata dalla paura (mascherina), la comunicazione (te-lefono) negata da un’immensa solitudine.