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04/07/2020 06:00:00

Scuola: uno spettro si aggira tra noi, la grettezza

di Gianfranco Perriera

Di una crepa sempre più vistosa che attraversa il mondo umano ha parlato Aldo Schiavone nel suo ultimo libro. “Scienza e tecnologia in fuga su un versante, - scrive lo storico in Progresso - a dettare i parametri di una nuova economia; controllo politico, forme democratiche, responsabilità etica, quadri d’interpretazione, progetto e legami sociali ad arrancare incerti e lenti su un altro”. Lo scatto in avanti della tecnologia ha del prodigioso, ma gli umani sembrano già da un pezzo stremati nel tentativo di tenere il ritmo, proprio mentre il loro stesso corpo sempre più in artificiale mostra di potersi trasformare. Affannato e convulso diventa il tempo dell’esistere. Esso è soprattutto denaro, insegna in effetti la vulgata capitalista. Ma sempre troppo poco ne resta a disposizione. La prestazione – produrre risultati smaglianti nel più breve lasso di tempo – è l’imperativo dell’epoca. Costi quel che costi (sempre di metafora monetaria, dunque si tratta), morale o immorale che sia l’atto nella sua spiritata spregiudicatezza, gli umani si sentono in debito di ossigeno. Ciò che appare esecrabile è la lentezza. Ciò che appare da bandire è la riflessione.

Svago, divertimento e flessibilità sono le parole d’ordine che il mondo della tecnica propone (o forse meglio impone) quali viatico alla felicità. Quali prove di una vita finalmente all’altezza del suo diritto al pieno godimento. Contemporaneamente, però, si accusano gli umani di essere troppo pigri e viziati, li si vuole iperproduttivi e iperconsumanti. La felicità promessa, dunque, si strema nell’inseguire desideri sempre caduchi e nell’invidiare quelli che hanno di più e sono al passo con la moda.

Di questo sgomento arrancare in cui si dibatte ogni persona (più che di società del rischio l’attuale si sta trasformando in società del si salvi chi può) a farne le spese non possono che essere tutte le attività di formazione dell’individuo. La Halbbindung (termine che potremmo tradurre con formazione dimidiata e superficiale) tende, ci avvertiva già Adorno, a sostituire la Bildung (una formazione cioè complessa e consapevole). “L’esperienza – scriveva il filosofo – e cioè la continuità della coscienza, in cui perdura ciò che non è più presente, in cui l’esercizio e l’associazione creano nel singolo la tradizione, viene sostituita dall’informazione puntuale, slegata, sostituibile ed effimera”. Sapere e tradizione si parcellizzano, l’effimero è immediatamente seducente: a scontarne il fio è soprattutto la scuola. Già nel suo nome – scholè in greco vuol dire tempo libero, ozio – essa rivela e insieme pone le sue ragioni e le sue condizioni. La scuola necessita di tempo. Essa - pur essendo in stretta relazione con l’epoca e la società che la ospita e di cui si fa memoria e critica insieme - si presenta anche come luogo appartato: una sorta di giardino (nella migliore accezione) o di stanco confino (nella peggiore), in cui saperi, tradizioni, metodi, principi, comportamenti, pratiche, mancanze, aspirazioni della comunità (mondiale, come locale) vengono portati all’attenzione e all’analisi di chi quel luogo frequenta. Un essere umano consapevole ed autoconsapevole, in grado di agire responsabilmente e insieme di scoprire e praticare i propri talenti, questo dovrebbe essere lo scopo di una scuola, non certo quello di produrre un essere funzionale, in grado di compiere nel più breve tempo possibile alcune operazioni al servizio di una macchina. Ma quanto continuiamo ad allontanarci da questo scopo?

“La scolarizzazione obbligatoria – aveva scritto Ivan Illich già all’inizio degli anni ’70 - non soltanto polarizza una società, ma classifica le nazioni del mondo secondo un sistema internazionale di caste. I singoli paesi vengono cioè valutati come caste, la cui dignità culturale dipende dalla media di anni di scuola dei loro cittadini”. Sottolineava Illich, nella sua vibrante analisi dei processi d’istruzione raccolta nel libro Descolarizzare la società, il rischio della scuola di trasformarsi in un sistema di irregimentazione dei cervelli in quadri utili al potere di turno, un processo che avrebbe contribuito a stabilizzare (quasi a certificare) la differenza tra ricchi e poveri. Prigioniera delle leggi del mercato, la scuola – a detta di Illich e di molti dei pensatori poststruttarilisti e decostruzionisti che hanno costellato il pensare postmoderno – la scuola sarebbe stata l’ancella del sistema, veicolando un sapere banalizzato e burocratizzato. L’istituzionalizzazione, la pratica delle discipline – come avrebbe detto Foucault – avrebbe fatto dei cervelli umani un terreno di coltura per l’indottrinamento utile al sistema stesso e avrebbe rimarcato la differenza tra chi possiede il denaro e può percorre l’intero cursus honorum degli studi da una parte, e chi non ha il denaro e si arresterà dunque ai gradi inferiori del percorso scolastico, divenendo disponibile, magari con vergogna per la propria incapacità, a ricoprire gli incarichi meno qualificati della società.

Il fatto è, come ha ben evidenziato il bell’articolo recentemente pubblicato di Lavinia Spalanca, che con il passar del tempo la considerazione in cui governanti e società tengono la scuola ha continuato a regredire. La sensazione è che essa in questi ultimi tempi rinunci persino alla funzione che aveva sino a qualche decennio fa, quella cioè di costruire le gerarchie amministrative di una società. A governare quel processo di razionalizzazione efficientista e spersonalizzante che per Max Weber contraddistingueva il mondo moderno bastano le macchine. Le persone sono sempre più in esubero, invece. E per chi è sempre più preposto a diventare un accuditore/servo delle macchine stesse il pensare è un’attività distraente. La scuola, pertanto, forse per la prima volta nella storia tende a divenire un corpo estraneo alla stessa società che pure la deve sostenere. Più utile come un “deposito per minorenni” piuttosto che un laboratorio per apprendere, comprendere, criticare le tradizioni e i saperi, essa viene derubricata tra i fardelli noiosi di cui non è facile sbarazzarsi. Il suo tempo lento e il suo metodo a preponderanza analitico appare un’incongruenza improduttiva per il mercato e per il mondo trasformato in immagine. In effetti quale mestiere presuppone un apprendimento obbligatorio di dieci anni da cui non è affatto detto che il sistema possa ricavare guadagni e che, per di più, qualora il processo di autoconsapevolezza procedesse senza intoppi, potrebbe persino portare alla trasformazione del sistema stesso? La scuola non permette più (e neanche più promette, ormai) la scalata sociale, com’è stato in Italia nel dopoguerra. Studia chi ha il denaro per farlo e per pagarsi corsi e università che costano un bel patrimonio, gli altri si arrangiano (persino i laureati non hanno più alcuna certezza, spesso i call center divengono il loro punto di approdo).

La scuola, insomma, sbanda nelle contraddizioni, e in buona parte si affida alla spasmodica volontà degli insegnanti, sempre più bistrattati e sfiduciati, per altro. L’epoca dell’accelerazione e dell’obsolescenza immediata, tende a trasformare gli insegnanti in affannati e fragili sognatori in un mondo che i sogni li vuole materializzare negli oggetti di consumo e che il tempo della pausa teme come il peggior delitto.

L’epoca, intanto, svilisce la parola, trasformandole in slogan, precipitandola nell’incongruenza, tradendo le promesse e infischiandosene dell’esemplarità e della coerenza tra discorso ed atto. In diverse parti del globo e in Italia in particolare, mentre la cultura scientifica continua a languire, quella umanistica ha preso a soffrire enormemente. La crescita etica di ogni individuo, nell’ipotesi che questa avvenga unendo la capacità di misurarsi attraverso la conoscenza con la tradizione più complessa alla frequentazione dell’altro e alla collaborazione con l’altro (anche il più dissimile), è la ragione di una scuola. Affinché un cittadino sappia partecipar con responsabilità alla vita, propria e della comunità. A conclusione del suo libro Non per profitto - scritto mentre dilagava l’ipotesi dello scontro di civiltà e mentre l’amministrazione americana continuava ad erodere i contributi per l’istruzione, in particolare quella legata agli studi umanistici - la filosofa statunitense Martha Nussbaum scriveva: “se l’autentico scontro di civiltà è, come io credo, uno scontro interno all’anima di ciascuno di noi, dove grettezza e narcisismo si misurano contro rispetto e amore, tutte le società contemporanee sono destinate a perdere a breve la battaglia, se continueranno ad alimentare le forze che inevitabilmente portano alla violenza e alla disumanità e se negheranno l’appoggio alle forze che educano alla cultura del rispetto e dell’uguaglianza”. Uno spettro, in effetti, si aggira oggi tra noi: quello di una disincantata grettezza e di una rabbia frutto di risentimento e disillusione. Solo un ripensare alla pregnanza della scuola, il luogo dove le esperienze non calano semplicemente dall’alto né si consumano in un batter di ciglia, ma si attraversano e ci trasformano con qualche lentezza nell’incanto di un incontro, può scamparci dalla indifferente nequizia. E se lo stato insiste a nicchiare, un qualche sforzo, un qualche impegno, un qualche sacrificio ancora maggiore forse si devono chiedere a chi la scuola frequenta: a chi vi va ad apprendere, che la smetta di pretendere soltanto le emozioni e i divertimenti che gli onnipresenti schermi regalano agli umani; a chi vi insegna, che smetta di attendere un qualche miracolo dall’alto.