di Lavinia Spalanca
Ci si domanda (o, perlomeno, qualcuno se lo chiede) in questi giorni di vacuità governativa sulla riapertura scolastica a settembre, se esista un piano – a, b, c... non importa – per ripensare la scuola del futuro. Ma basterebbe anche quella del presente. Al posto di generiche linee guida e relativi contrordini, andrebbe ricostruita la funzione stessa dell’educazione, che giace sepolta sotto il tanto decantato “diritto all’istruzione”. Ma l’istruzione nel senso di istruire o di fornire istruzioni per l’uso a futuri impiegati sottopagati? È quello che Omar Aktouf definisce, con lungimiranza, «employabilité». Gli alunni sono istruiti alla perfezione per diventare servitori del sistema, «bipedi pensanti» - sono sempre parole dell’intellettuale algerino – in funzione del più bieco capitalismo. In un contesto siffatto, un Socrate o un Rimbaud non avrebbero avuto ragione di esistere. Se l’andamento generale è questo – in una parola, la digitalizzazione della vita in funzione del mercato – quale può essere l’antidoto, il contravveleno, per tentare d’invertire la rotta? Partiamo proprio dalla situazione attuale, da quella triade nefasta – incertezza, impotenza, frustrazione – che ci attanaglia, facendoci fluttuare in un tempo sospeso da riempire, nella migliore delle ipotesi, con passatempi effimeri. La prescritta superesposizione ai media – simulacri del reale, parvenze di vita – genera un’altra e ancor più subdola triade: passività, apatia, rimozione. Se ad esporsi è un individuo consapevole, il danno sarà relativo, ma se a farlo saranno i corpi e le menti dei più vulnerabili, soprattutto fra i giovani, i segni di questa pandemia culturale perdureranno a lungo.
Tra le pseudo-novità della scuola di domani la tanto sbandierata educazione civica – anch’essa, ça va sans dire, in chiave digitale – in funzione di un’istituzione “moderna, sostenibile, inclusiva”. A parte le belle parole – come ottenere l’inclusione di alunni disabili in classi pollaio con penuria di personale specializzato al seguito? – una reale e non fumosa educazione alla cittadinanza attiva si può ottenere soltanto in un modo, sostituendo alla digitalizzazione della vita la teatralizzazione della vita. In sostanza, trasformando l’educazione civica in educazione teatrale, ossia la più alta forma di educazione ai valori etici e civili di una nazione. Senza scomodare il teatro greco, basterebbe citare Pasolini, e il suo Manifesto per un nuovo teatro (1968), per individuare in esso un «rito culturale». Lungi da formalismi estetici o compiaciuti misticismi, il teatro è per Pasolini la capacità di comprendere, da parte dell’attore e dello spettatore, la verità del testo. Una verità spesso tramata di tormenti esistenziali, o che scava implacabilmente nelle pieghe del corpo sociale. Al centro del teatro è dunque la parola, uno spazio in cui l’attore non è il «portatore di un verbo che trascenda la cultura in un’idea sacrale del teatro, ma semplicemente un uomo di cultura».
Come realizzare tutto questo nella scuola? Partendo anzitutto da una reale e non ipocrita comprensione dei bisogni degli alunni, soprattutto in questo particolare momento storico, che ha abolito numerosi riti di passaggio – la maturità è uno di questi – appiattendo in un eterno presente, senza regole e scansioni spazio-temporali, il vissuto individuale e collettivo. E come reagire? Sostituendo l’educazione al servizio del profitto con una creatività strutturata, per esempio trasformando l’ora di educazione civica in riflessione teatrale, affidata ai docenti ma coadiuvata da esperti del settore, reclutati non coi magri borsellini della scuola, o le esigue risorse comunali, ma con appositi finanziamenti statali. E ciò, proprio in ragione della tanto anelata rifunzionalizzazione degli edifici scolastici connessa al distanziamento sociale. È necessario ripensare gli spazi e le metodologie? Perché non incentivare allora le letture in biblioteca, o i laboratori teatrali negli spazi aperti, ma senza delegare le iniziative alla buona volontà dei singoli docenti, e affrontando la questione su un piano strettamente pedagogico. Anche l’individuo meno esperto intuisce che la capacità di gestire e orientare le emozioni, di applicare una salutare distanza (non distanziamento) fra azione e riflessione, di esteriorizzare l’io passando dal famigerato “problem-solving” – invito al lavoratore-schiavo di domani – al “role-playing”, di trasformare la passività in gesto, la rimozione in elaborazione, e soprattutto il passatempo in passione, è l’unico modo per ricostruire il senso, oramai perduto, della collettività. Il teatro come apprendimento attivo in tutte le sue forme, gioco di gruppo dove rigore e sacrificio, regola e ritmo si fondono al piacere creativo. Perché solo mutando la conoscenza in azione, lo studio in rielaborazione personale, gli studenti di domani non scambieranno i partigiani coi repubblichini, o Giovanni Verga con Giovanni Pascoli. È facile ironizzare, bisognerebbe piuttosto limitare l’uso del tablet – col rischio di un’autoerotica messa in scena dell’io – e incentivare invece la condivisione attraverso il teatro, luogo di sorprendente metamorfosi, soprattutto per i più giovani alla ricerca di un’identità. Un teatro svincolato da confini fisici dove «un uomo - come diceva Peter Brook - attraversa lo spazio e un altro lo osserva: è sufficiente questo a dare inizio a un’azione teatrale».