di Carola D'Andrea
Da tutte le parti, nei mesi di didattica a distanza, è stato sottolineato il ruolo centrale della scuola. Eppure, in Italia, a parte delineare protocolli per lo svolgimento degli esami di maturità e indire concorsi i cui bandi sono soggetti a continue modifiche, sembrano poche le azioni volte a nutrire e garantire effettivamente la centralità e la solidità delle istituzioni scolastiche. L’emergenza sanitaria e la conseguente crisi economico-sociale, come tutti i momenti critici, hanno offerto, a occhi attenti e desiderosi di leggere tra le pieghe del reale, la possibilità - certamente non auspicabile attraverso tali mezzi- di attuare cambiamenti da tempo invocati.
Tra questi, la digitalizzazione della didattica, a cui si associa la “tecnicizzazione” della classe docente, e il riconoscimento, quindi una valorizzazione, di un sentimento comunitario, di un’appartenenza a un ordine superiore, non necessariamente definibile e confinabile entro i termini patriottici o nazionali, quanto legato all’idea stessa della società. Per la prima volta nel nuovo millennio, forse, l’uomo 2.0, pur continuando a percepirsi come monade, ha aperto qualche finestra allo spazio comune e, per ingannare lo spaesamento di tale occupazione, ha iniziato anche a cantare. Mentre le vie delle città venivano tagliate dai tricolore, da melodie e note, associando un volto a balconi solitamente vuoti, le aule delle scuole rimanevano in silenzio.
Improvvisamente la contingenza emergenziale ha spezzato definitivamente le pareti delle classi, portando, in teoria, la scuola, in pratica una sua sfumatura, all’interno delle mura domestiche. Occasione per rinsaldare finalmente il legame scuola-famiglia? Per attuare la tanto desiderata corresponsabilità educativa? La situazione, oltre a mostrare la drammatica diseguaglianza sociale, ha interrogato, meglio, avrebbe dovuto interrogare, non tanto gli strumenti e le metodologie didattiche, quanto le fondamenta stesse dell’educazione e dell’istruzione, anzi della cultura. Oltre a rimodulare e riorganizzare i percorsi tematici previsti e le unità didattiche, ad acquistare dispositivi digitali e a inviare dispense, sussidi e mappe, qualcuno avrebbe dovuto fermare tutto e chiedersi il motivo di tali azioni e, qui il punto centrale, se ci fosse, o ci dovesse essere, un nesso con quel sentimento di apertura che ha condotto la gente sia al rispetto dei decreti e dei protocolli sia a intonare canti sui balconi.
Qual è il fine ultimo, dunque primo, della scuola? Qualcuno, oltre a declinare i propri obiettivi didattici in base alle competenze chiave previste dall’UE, si è posto tale interrogativo? E, soprattutto, come affrontare determinate riflessioni e determinati argomenti in un’ottica europea mentre l’UE sembrava sbiadire sulla carta geografica? Come ricorda Hannah Arendt, i momenti di crisi, costringendoci a tornare alle domande, aprono nuove possibilità di riflessione. A partire dal prossimo anno scolastico farà ingresso, sotto nuove vesti, l’insegnamento dell’Educazione civica. Quale sarà il senso di tale materia? Aggiungere un ulteriore voto nella valutazione finale o educare realmente a una sensibilità, dunque non necessariamente appartenenza, sociale?
La primavera del 2020 non sarà ricordata, forse, soltanto per l’epidemia, ma anche per gli innumerevoli eventi sociali e politici che hanno fatto tremare gli stati, dunque gli esseri umani. Quale domanda siamo stati capaci di porre dinanzi alla morte, alle rivolte, alle ingiustizie e alle crudeltà? Non si tratta, purtroppo, di situazioni inedite, ma, per la prima volta nel nuovo millennio, tutti, seppur nella diseguaglianza, ci siamo sentiti chiamati in causa, responsabili. Quando o se a settembre ci sarà il tanto atteso, e si spera organizzato, ritorno tra i banchi scolastici, torneremo davvero a ripetere i medesimi e incrostati contenuti disciplinari o, affrontando il dolore di Pascoli per la morte dei suoi familiari, ritroveremo le stesse lacrime di coloro che hanno perso i cari durante la pandemia? Presentando il Decameron ci soffermeremo sulla struttura dell’opera o sulla capacità della parola e della narrazione di opporsi alla paura e alla fine? Quando presenteremo ai ragazzi il nuovo insegnamento di Educazione civica che cosa diremo, quale sarà il senso di tali lezioni? L’acquisizione di una coscienza civica, certamente, ma forse sarebbe auspicabile parlare di coscienza umana, capace di agire a prescindere da quella civica, di superare, inglobando, la stessa Costituzione, recuperando il sentimento di una nuova appartenenza non tanto alla società, alla nazione o al continente, quanto alla specie umana.
Forse, allora, potremo insegnare Cittadinanza leggendo una poesia.