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22/07/2020 06:00:00

Il cinismo dell'era social

di Lavinia Spalanca

 L’incoerenza performativa, ossia la contraddizione insanabile fra pensiero e azione che caratterizza l’‘operato’ di molti politici, soprattutto sovranisti, è l’esito – secondo il filosofo Peter Sloterdijk – di una gestione del potere all’insegna della degenerazione del cinismo. In altre parole, l’impotenza ad incidere sulla realtà, a modificare il corso degli eventi, genera quell’indifferenza nei confronti delle questioni etiche e sociali che sfocia, inevitabilmente, in una condotta cinica e spregiudicata, e basti pensare alla ‘gestione’ dell’emergenza sanitaria negli Stati Uniti di Trump o nel Brasile di Bolsonaro. Si tratta di un circolo vizioso – impotenza/indifferenza/cinismo – a sua volta intrecciato ad un prepotente bisogno di affermazione. Nulla a che vedere con la «divina Indifferenza» di montaliana memoria, sorta di salutare distacco dalla realtà, l’indifferenza attuale non è che la colpevole negazione dei problemi, e dunque la complicità col male, frutto avvelenato del narcisismo contemporaneo.

Fin qui la politica. E noi? Cittadini del mondo globalizzato e social? Per comprendere la portata del problema basterebbe analizzare due generazioni a confronto, quella dei giovanissimi I-Gen – gli iperconnessi ad internet – e quella dei loro padri quarantenni, alla quale mi trovo ad appartenere. A connotare la prima è la fuga dalla realtà e il conseguente rifugio nel virtuale, luogo di comunicazione e socialità apparenti che riduce spesso i suoi adepti ad automi dis-umanizzati, come il recente caso di pedopornografia tra adolescenti – trattato da questo giornale – dimostra eloquentemente. Se a marchiare gli I-Gen è la paura del reale, a contrassegnare i miei coetanei è soprattutto la sfiducia e, conseguentemente, la rinuncia all’azione. «La mia generazione ha perso», scriveva Gaber agli albori del 2000. La mia ha direttamente rinunciato a combattere. Ovviamente, la rabbia e la frustrazione crescenti non possono che riversarsi nelle apposite latrine virtuali, dove dar sfogo ad un cinismo disperato. Ma a questo punto dobbiamo fare una precisazione, per evitare pericolosi fraintendimenti e facili sovrapposizioni.

Cosa intendiamo per cinismo contemporaneo, e che cosa lo distingue dal cinismo filosofico degli antichi? Si tratta infatti di due concetti agli antipodi, che è necessario differenziare. Il cinismo originario – quello di Diogene e Antistene, per intenderci, e della filosofa Ipparchia, che anziché al telaio femminile si dedicava alla propria educazione – è una sorta di individualismo polemico, un rifiuto delle convenzioni sociali al fine di salvaguardare la propria integrità morale, la predilezione per una vita randagia (come quella dei cani, secondo l’etimologia greca) sinonimo di libertà e autosufficienza dal potere. Cane sciolto, e solo come sa essere un cane, il filosofo cinico coltiva l’autarchia in polemica col culto effimero del potere, della ricchezza, del piacere fine a se stesso, del desiderio di fama. Ma la sua caratteristica, la più bella di tutte, è la parresìa, ossia ciò che Foucault celebrerà come il coraggio della verità, della polemica, della contestazione.

Andiamo adesso al cinismo attuale. Al carattere individualistico e contestatario del cinismo degli antichi si contrappone il cinismo di massa, per nulla battagliero ma dominato da un istinto di conservazione, dal conformismo e dall’immobilismo ideologico più assoluto, che del primo rappresenta appunto la totale degenerazione. Quando scorsi, su una bancarella, il bellissimo pamphlet di Farrachi Il trionfo della stupidità, la giovane e graziosa commessa mi ammonì dicendomi che era un libro terribilmente cinico. “Allora lo compro”, risposi io all’istante. A differenza di Farrachi, cultore della parresìa ad ogni costo, i neocinici dell’era social non professano l’elogio dell’etica individuale, in opposizione ai perbenismi vigenti, ma portano al contrario i segni di una grave patologia sociale, strettamente connessa al narcisismo, ossia l’atteggiamento più anti-sociale che esista, per giunta alimentato da una profonda depressione. Rispetto all’indole melanconica e cogitabonda, ossia quella dell’artista saturnino in preda ai suoi demoni, l’anima del cinico è un’anima disabitata e perennemente insoddisfatta. In quanto cinico è portato all’azione, al pragmatismo e all’opportunismo – nel senso di sfruttare gli altri come pedine per soddisfare le proprie egoistiche brame – in quanto depresso è vittima di una continua frustrazione. L’anima dell’artista e del pensatore è un’anima abitata dalle sue passioni, rinvigorita dalle sue emozioni. L’anima del cinico è vuota.

Alle origini del cinismo contemporaneo, come si diceva prima, è dunque un misto di paura e sfiducia nelle relazioni umane, e per conseguenza uno scarso coinvolgimento affettivo e persino sessuale, un disimpegno politico e sentimentale, un infantilismo che accomuna giovani e meno giovani, che si appiattano nel loro limbo e disprezzano profondamente gli altri. Cosa c’entra tutto questo col cinismo dei politici? C’entra eccome, perché è sulla paura, sull’egoismo e sulla legge del sospetto che si fondano le peggiori derive autoritarie.