di Marco Marino
Il titolo potrebbe trarre in inganno. In realtà, il nuovo libro di Alfredo Galasso, La mafia che ho conosciuto. Un racconto per le vecchie e le nuove generazioni (Chiarelettere), è una testimonianza corale, un volume scritto idealmente a più mani. Alla voce di Galasso, uno dei principali testimoni della lotta alla criminalità organizzata (difensore di parte civile nel Maxiprocesso, componente del Csm, docente universitario), si uniscono infatti i ricordi e le riflessioni di quegli uomini a cui dobbiamo la nostra più concreta idea di legalità e di senso dello Stato: sono Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Antonino Caponnetto e molti, molti altri.
La mafia che ho conosciuto raccoglie anni di dialoghi, incomprensioni e ravvedimenti, di passioni e sacrifici, che ci offrono una coscienza sempre più profonda e complessa del sistema mafioso. Che continuamente cambia pelle, si adatta a nuove circostanze, mai tradendo però la sua natura originaria.
Professor Galasso, il suo nuovo libro, La mafia che ho conosciuto, comincia parlando del suo rapporto con il giudice Rocco Chinnici. Oggi sono trentasette anni dall'attentato che gli tolse la vita in via Pipitone Federico a Palermo. Vorrei cominciare la nostra conversazione chiedendole di ricordarci il ruolo decisivo che ebbe il dottor Chinnici nella lotta alla mafia.
Rocco Chinnici è stato il fondatore del pool antimafia, che ha segnato una strategia esemplare di contrasto alla criminalità organizzata e che poi, col passare del tempo, è diventato quello che oggi è la Direzione distrettuale antimafia. Una grande intuizione. Un pool che nacque dalla sua capacità, dalla voglia, dall’insistenza, anche dalla fatica di mettere insieme magistrati di alto rango, di alta capacità professionale – Giovanni Falcone fu chiamato da lui all’Ufficio istruzione di Palermo quando il procuratore generale dell’epoca, Giovanni Pizzillo, aveva detto che Falcone, tornato da Trapani, era meglio metterlo a occuparsi di assegni a vuoto e roba del genere.
C'è un capitolo molto interessante dedicato ai "diari" di Chinnici, pubblicati dopo la sua morte, in cui si leggono delle critiche a Giovanni Falcone per alcune indagini che stava seguendo. Era effettivamente così?
Una doverosa premessa: nello stesso periodo in cui Chinnici, in maniera riservata, affidava a questo suo diario intimo quelle riflessioni, che potevano essere semplicemente delle impressioni, mi diceva che sarebbe stato tranquillo se avesse deciso di andare a Torino a prendere il posto di Bruno Caccia (ucciso dalla mafia nel giugno dell’83), perché sapeva che a Palermo lo avrebbe sostituito Giovanni Falcone. Quando Giovanni Falcone, a causa dell’indebita e sciagurata pubblicazione di questi diari personali di Chinnici, fu chiamato al Consiglio superiore della magistratura, spiegò con le lacrime agli occhi, in maniera assolutamente convincente, quali erano i suoi rapporti con Chinnici e come qualche volta potevano non essere d’accordo sul procedimento di qualche indagine. In particolare, Falcone non era d’accordo che si anticipasse un’operazione nei confronti dei cugini Salvo, secondo lui non c’erano ancora gli elementi di prova sufficienti. Il tempo gli diede ragione.
Anche lei ebbe delle incomprensioni con il giudice Falcone. Ci riferiamo al periodo in cui Falcone lasciò Palermo per il suo nuovo incarico al Ministero di Grazia e Giustizia.
Mantengo la mia opinione, cioè l’idea che per lui sarebbe stato molto meglio, soprattutto per una questione di sicurezza, rimanere a Palermo. Anche se oggi capisco che le sue difficoltà erano notevoli, per colpa di un procuratore come Pietro Giammanco che non solo non andava d’accordo con Falcone ma gli rendeva difficile il lavoro quotidiano. Ma questo lo abbiamo saputo dopo. In quella trasmissione (la puntata del «Maurizio Costanzo Show» del 26 settembre 1991, ndr), ormai diventata un pezzo di storia della televisione, ricordai a Falcone che in sede ministeriale il magistrato rimane alle dipendenze del capo dell’esecutivo, ma soprattutto gli manifestai con affetto il mio dispiacere che lui fosse andato via da Palermo. L’ultima parte della trasmissione in cui Maurizio Costanzo dice a Falcone che questa mia posizione era una “dichiarazione d’amore”, e Falcone risponde con un sorriso, è stata tagliata. Perché evidentemente bisognava accreditare l’idea che gli amici di Falcone come me si erano rivolti contro di lui.
Dal 1992 ad oggi molti hanno cercato di spiegare la natura di Cosa Nostra prima e dopo la stagione delle stragi. C'è chi pensa che quella stagione sia un'anomalia corleonese, nata e conclusa con la parabola di Totò Riina e dei suoi affiliati. Qual è il suo pensiero a riguardo?
Io considero la mafia non semplicemente un’organizzazione specifica come Cosa Nostra siciliana, la 'ndrangheta calabrese, la Camorra napoletana, o la Sacra Corona della Puglia, ma un sistema di potere in cui ci sono interessi e personaggi di diverse categorie: ci sono i mafiosi, gli imprenditori, i politici e gli esponenti delle pubbliche istituzioni. In un meccanismo perverso, criminale, nel quale beninteso l’interesse di una di queste categorie è indispensabile per tutelare il benessere delle altre. Questa è la vera essenza della mafia, e la ragione per cui ancora sopravvive. Le stragi sono state un momento particolare in cui s’è tentato di agire nei confronti di uno Stato che si presentava antagonista di questo sistema di potere, quindi delle impunità dei boss, degli interessi affaristici, delle collusioni politiche. Le stragi sono state una reazione durissima sul piano militare, che aveva lo scopo di ristabilire non forse una complicità ma certamente un’indifferenza, da parte dello Stato, rispetto a questo sistema di potere. E dunque dobbiamo ricordare che la mafia, intesa in questo senso, è qualcosa di estremamente pericoloso e purtroppo tendenzialmente permanente.
Di Falcone e Borsellino lei è stato amico, per anni avete condotto una comune lotta alla criminalità organizzata. Cos'ha provato quando il giudizio su di loro è improvvisamente cambiato? In vita continuamente screditati e boicottati, e dopo la loro uccisione santificati e presi a modello.
Le ho vissute con una sensazione di amarezza e al tempo stesso di rimpianto. Debbo dire che ho avuto la fortuna di mantenere poi un rapporto molto vivo, molto affettuoso, una rara amicizia, con Antonino Caponnetto, che mi ha consentito di discutere con lui e di superare insieme questi momenti retorici insopportabili, questa esaltazione che fa dimenticare l’umanità e la fatica quotidiana di questi magistrati, nostri amici, e le delusioni che avevano subito. Non dimentichiamoci, ad esempio, che Giovanni Falcone aveva concorso per il Consiglio superiore della magistratura ed esponenti della sua stessa corrente non l’avevano voluto… Falcone aveva un carattere molto più riservato di Borsellino, il quale ebbe dei momenti di esternazione che dettero molto fastidio nell’ambiente giudiziario. Purtroppo, la storia della magistratura è una storia molto complicata, come questi giorni stanno dimostrando. Io sono stato al Csm e ho avuto un’esperienza che considero complessivamente molto positiva, non voglio dire che erano altri tempi, dico però che probabilmente la degradazione di questa nostra vita sociale e culturale, a cui tutti assistiamo, non poteva non incidere anche sulla storia della magistratura.
Il caso Palamara certo complica molto la situazione.
Io dico che il guasto profondo prodotto da Palamara è soprattutto questo, avere determinato una perdita di fiducia dell’opinione pubblica nei confronti della magistratura, alimentando una serie di attacchi da parte di chi dalla magistratura ha subito una serie di sanzioni assolutamente legittime. Non ho bisogno di fare nomi per renderci conto di chi siano. A certuni, uso un’espressione un po’ rozza, non gli pareva l’ora che si potesse dir male della magistratura, ma guai a consentire che questo si sviluppi in modo diffuso, perché la magistratura è stata e resta un baluardo per la legalità e particolarmente per l’azione di contrasto alla criminalità organizzata.
L'ultima parte del suo libro riguarda Mafia Capitale. Sono tante le espressioni che stanno nascendo negli ultimi anni per definire le nuove forme di mafia: la mafia di Roma è Mafia Capitale, per il sistema Montante si è parlato di "mafia trasparante". Ma cos'è oggi mafia e cosa non lo è?
Bisogna stare attenti alle denominazioni, che spesso sono fuorvianti. Per quanto riguarda Mafia Capitale resto convinto, al di là di ciò che è scritto nella sentenza della Corte di Cassazione, che si è trattato di un sistema di potere di tipo mafioso, quindi assolutamente riconducibile all’articolo 416 bis del Codice penale. Ci sono altri fenomeni, che non rappresentano il sistema di potere mafioso ma vi sono collegati, e che impropriamente definiamo allo stesso modo, rischiando di perdere di vista qual è il nucleo centrale. Naturalmente, numerose sentenze della Corte di Cassazione parlano del cosiddetto “concorso” nell’associazione mafiosa, ci sono personaggi cioè che aiutano la sopravvivenza di questo sistema piuttosto che contrastarlo. Questi sono fenomeni, come dire, “paramafiosi”, e sono anch’essi estremamente pericolosi perché sorreggono l’impianto principale. Però, ripeto, non dobbiamo dimenticare che una generalizzazione e un’applicazione dell’aggettivo “mafioso” a tutto ciò che in qualche modo sta nei pareggi del sistema può essere fuorviante.