di Gianfranco Perriera
Che un’opera d’arte dovesse essere, nei nostri tempi, assai più stimolante per la mente che per gli occhi è il lascito di Arthur C. Danto, critico e filosofo scomparso nel 2013, uno dei principali maître à penser dell’arte contemporanea. Prendendo le mosse prima da Duchamp e poi, soprattutto, da Warhol, Danto sosteneva che la domanda principale da porsi di fronte ad un’opera d’arte fosse non più “che cos’è l’arte”, ma, invece, parafrasando le sue parole, “perché una certa cosa è un’opera d’arte benché identica – più o meno – a un’altra cosa che invece non lo è”. Momento dirimente di tale acquisizione concettuale fu, agli occhi del critico americano, l’esposizione delle Brillo Boxes di Warhol, nel 1964, alla Stable Gallery di New York. Assolutamente identiche - tranne che per il materiale (acrilico su legno) in cui la scultura (?) fu realizzata – a quelle disegnate da James Harvey, grafico con un passato nell’espressionismo astratto, per le scatole di spugnette detersive che si sarebbero trovate sugli scaffali di un supermercato, l’opera di Warhol godette dello statuto d’opera d’arte al contrario del logo realizzato da Harvey, che invano, gli intentò causa per plagio.
L’algido maestro della pop art poteva, dunque, in un sol colpo, trasformare una quasi copia in un affare artistico da migliaia di dollari. Con mossa diabolica, pur ricorrendo a procedimenti e materiali industriali che potevano rendere l’artefatto seriale e dunque privo di qualsivoglia aura (Factory si chiamava lo studio e punto di ritrovo per artisti che Warhol mise su a New York), pur riproducendo un logo pubblicitario di un prodotto per casalinghe, pur rinunciando all’originalità dell’invenzione, l’artista che come grafico, aveva cominciato, realizzava un’opera d’arte. Di notevole valore economico (valore che Warhol non esitava a elogiare: “essere bravi negli affari è la forma d’arte più elettrizzante”, poteva, infatti, scrivere da sfrontato stratega del proprio marketing). Lo scandaloso orinatoio realizzato (meglio sarebbe dire trovato e straniato) da Duchamp nel 1917, portava un titolo, Fountain, vagamente depistante, una firma falsa, R. Mutt, andò perduto e, nella dissacratoria e acutissima intelligenza dell’autore, gettava nello sbigottimento chiunque avesse voluto stabilire cosa fosse l’arte. Era una sfida anche all’interpretazione dello stesso oggetto: un critico altrettanto acuto, ma piuttosto tradizionalista, come si usa dire, come Jean Clair vi poté leggere persino una irriverente allusione alla conchiglia su cui Afrodite viaggiava sulle acque. Warhol, invece, si limitava a una duplicazione, seppur, come già detto, con materiale diverso. Con un tale gesto, l’artista figlio di emigrati slovacchi non soltanto dava origine a stilemi, quali l’appropriazionismo (il riproporre rifacimenti di opere di altri artisti) e il citazionismo, che avrebbero contraddistinto il postmoderno, ma, soprattutto, celebrava l’incanto e l’incantesimo della civiltà di massa capitalista e liberista, in cui tutti avrebbero potuto godere di un quarto d’ora di celebrità, tutti, il miliardario come il barbone, avrebbero bevuto la stessa bibita (la coca-cola, cioè) e tutti, infine, avrebbero potuto perdersi in un mondo trasformatosi in finzione di mondo – “prima che mi sparassero, scrive ancora ne La filosofia di Andy Warhol, […] ho sempre avuto il sospetto di stare guardando la tv al posto di vivere i miei giorni” – fino al momento in cui, però, un colpo di pistola e uno squarcio nella pelle avrebbero riportato al dato bruto, senza lustrini, e piuttosto dissennato, del reale (va detto, a onor del vero, che un’ombra di morte sbavava spesso – come mostra già il Marilyn Diptych del 1962 – dalle opere di Warhol).
Ad ogni modo, abbandonando per il momento le implicazioni dell’arte di Warhol, per tornare a Danto, era nelle Brillo Boxes che il critico indicava il punto di non ritorno del fare e dell’interpretare artistico: nell’opera (comunque fosse “posta”) a contare non era più ciò che si vedeva, ma ciò che non si vedeva e a cui si era indotti a pensare. Come aveva preconizzato Hegel, l’arte era morta ed era stata superata – ma anche conservata come vuole il termine aufheben – dalla filosofia. Se l’opera d’arte è un significato incarnato, allora tale significato sarà leggibile e interpretabile in base alla conoscenza di ciò a cui, pur nell’assenza, i segni rimandano e dunque il suo principale scopo sta negli interrogativi che suggerisce. E tali interrogativi si arricchiranno continuamente oltre che delle numerose letture precedenti anche dell’interazione con il contesto storico che le opere ospita. Superata la concezione istituzionalista (per cui a stabilire l’artisticità di una cosa è il fatto che un gruppo, anche limitato, di gente che conta e sa dona a questa cosa il marchio di opera d’arte) e superata la concezione essenzialista (quel che Sedlmayr, per esempio, ne La rivoluzione dell’arte moderna, pubblicato per la prima volta nel 1955, aveva definito come “l’aspirazione dell’arte e di tutte le arti ad essere completamente pure”, cioè ognuna assoluta, sciolta da legami con le altre, colta e consustanziata in ciò che è proprio), Danto, mentre riconosceva che non più la bellezza era lo scopo dell’arte (bellezza che si esibiva sempre di più nel quotidiano invece, negli accessori della vita come sugli schermi che consigliavano i sogni dei mortali), riconduceva l’opera al rapporto con il significato. Riconoscendo che essa si dava in quanto sempre in relazione (al fruitore, ai tempi e agli spazi) non la limitava – ne possiamo dedurre - all’impressione emotiva e ne suggeriva una possibile valutabilità qualitativa: quanti più pensieri e interrogativi un’opera suggeriva, tanto più profonda e ricca ne sarebbe risultata la sua qualità. Insomma con un abilissimo colpo di coda, in un’epoca che vedeva il trionfo dell’immagine e del visibile (tanto più efficace quanto più in movimento), Danto invitava a considerare che l’opera d’arte si rivolgeva soprattutto alla mente. Che un’opera d’arte contenga e consista anche di rimandi che non si danno nel visibile immediato, sia chiaro, non è certo un’invenzione di Danto. Basti pensare alla storia delle interpretazioni di scritturistica memoria o all’iconologia di Warburg, per limitarci, in questo secondo caso, a una fondamentale teoria del secolo scorso a cui gli studi estetici devono tantissimo. E se il rimando al non visibile è necessario per le arti figurative, quelle che necessariamente _ rappresentative o meno – si espongono alla vista, quanto maggiore lo è per l’arte della scrittura, dove non si danno figure (se non retoriche) e dove i rimandi che la mente deve intrecciare (dalla semplice conoscenza grammaticale, a quella sintagmatica e semantica e poi a quella del contesto – interno (la frase, il periodo sino all’intero testo) ed esterno (storico, sociale) – alle implicazioni con le altre letture, con gli altri testi e i significati che l’opera richiama – si fanno numerosi e sempre più asintotici? E quanto dobbiamo temere, allora, che l’analfabetismo funzionale si faccia sempre più dilagante?
Viviamo nell’epoca del consumo di massa, del rancore e dell’invidia (nei riguardi di esistenze che gli schermi pubblicitari esibiscono come beate e dirompenti ma che in tanti devono sentire come irraggiungibili, seppur per un maledetto pelo). Viviamo in tempi che, come aveva scritto Adorno, mentre prescrivono l’happiness, fanno pensare “al padre furente che tuona contro i figlioletti perché non gli corrono incontro festosi per le scale quando torna di cattivo umore dall’ufficio”. Agiamo (o speso siamo agiti) in un contesto storico che, mentre sconsiglia e ostacola la riflessione quale inopportuna perdita di tempo, inonda lo spazio di slogan, di luoghi comuni beceri, di sfrontati incitamenti all’odio del più debole e di proditorie dichiarazioni illogiche e incoerenti. Beh, proprio in tali tempi, mi pare che l’appello alla mente e ai significati non immediatamente visibili di cui Danto si è fatto portatore – e di cui mi piace ricordare che proprio questo stesso anno, poco prima che fossimo segregati per il covid – 19 la Neri Pozza ha pubblicato alcune conversazioni con Demetrio Paparoni, con il titolo Arte e Poststoria – debbano essere tenuti nel debito conto non soltanto per risuscitare in noi la capacità di leggere in profondità un’opera d’arte, ma anche per evitare che l’umano precipiti nella stolidità mentale e nella durezza di cuore.