Il giornalista che racconta il lato oscuro del potere può finire vittima di cause per diffamazione, con richieste di risarcimento a cinque zeri. Sono le cosiddette querele temerarie. Chi le fa, se perde, pagherà soltanto le spese legali, mentre chi le subisce è costretto a sacrificare energie e soldi per anni.
E’ il caso di Marco Bova, valente giornalista dell’AGI, finito nel mirino dell’ex senatore alcamese Nino Papania per un articolo su “Il Sicilia” del 2017.
Il parlamentare del Pd lo aveva querelato per diffamazione, chiedendogli 150 mila euro di risarcimento.
Chiesti da subito, senza aspettare che il giudizio penale avesse accertato il danno. D’altronde gli avvocati sanno bene che spesso, i risultati della richiesta di risarcimento in sede civile sono quelli che arrivano prima.
Per prima invece, arrivò in sede penale l’archiviazione a favore del giornalista.
Uno pensa che allora sia decaduto automaticamente anche il procedimento civile. E invece no, sono due cose separate: il giudice civile, in teoria, avrebbe potuto accogliere lo stesso il risarcimento, considerandolo magari un diritto negato dal giudice penale.
Le cose però sono andate diversamente.
Il giudice Caterina Linares ha respinto la richiesta di risarcimento, entrando anche nel merito della vicenda: “la pubblicazione della notizia, della cui verità non è dato dubitare – scrive nella sentenza - è riportata con chiarezza e toni del tutto moderati, di cui non può che apprezzarsi la pacatezza, di talché è del tutto esclusa qualsiasi valenza diffamatoria”.
Ed il politico è stato condannato al pagamento delle spese legali nei confronti di Marco Bova e della società editrice (Il Sicilia) per oltre 15 mila euro.
Papania, farà appello?
E’ difficile. Anche perché, se lo dovesse perdere, il giudice raddoppierebbe il risarcimento delle spese legali (funziona così). E le spese legali, come si è visto, non sono proprio bruscolini dal momento che sono proporzionate all’entità della richiesta di risarcimento, di per sé sproporzionata. Risarcimento che un’archiviazione penale ha già sancito indirettamente come non dovuto, non essendo stata ravvisata alcuna diffamazione.
Ma perché Papania aveva querelato Bova? Che c’era scritto in quell’articolo del 3 gennaio 2017?
Il giornalista aveva parlato della vicenda dell’ex sindaco di Alcamo Giacomo Scala, ai servizi sociali in un processo dove era stato accusato di aver diffamato il candidato sindaco Niclo Solina, durante la campagna elettorale della amministrative 2012 (Scala sosteneva Bonventre, poi eletto). L’ex sindaco aveva optato per la cosiddetta “messa alla prova”, svolgendo obbligatoriamente un servizio gratuito di pubblica utilità, il cui buon esito avrebbe determinato l’estinzione del reato.
A Papania, difeso dall’avvocato Vito Galbo, non era andato giù che nella foto dell’articolo, oltre a Scala, ci fosse stato anche lui. A suo dire, sarebbe stato associato alla stessa vicenda.
Ma la foto non era messa lì a caso.
Marco Bova, infatti, nel testo riportava anche la notizia della condanna di Papania per voto di scambio “evento assolutamente vero e pertinente al tema che – si legge nella sentenza – il giornalista intendeva trattare con l’articolo in questione, volendo analizzare un periodo temporale particolarmente complesso, periodo in cui due esponenti del panorama politico alcamese, connessi tra loro da stretti legami politici, furono coinvolti in diversi procedimenti penali, che comunque trovano un comune denominatore nelle elezioni amministrative del 2012”.
Insomma, Bova aveva raccontato delle cose che erano intrecciate tra loro e che rientravano perfettamente nel diritto di cronaca giornalistica.
E’ per questo che il giudice Linares ha accolto la tesi difensiva dell’avvocato Domenico Grassa, che ha difeso Bova nell’intero procedimento.
Quest’azione legale di Papania ha tutta l’aria di essere stata intrapresa soltanto per silenziare una voce scomoda. In inglese è nota come “Strategic lawsuit against public participation” (SLAPP) e
identifica le azioni legali tese a bloccare la partecipazione pubblica.
In altre parole, una di quelle querele temerarie che rischiano di mettere in pericolo il giornalismo indipendente.
Al di là della forma onomatopeica dell’acronimo, che richiama anche le dinamiche strumentali del servilismo politico, la querela temeraria è fatta proprio per sfiancare coloro che vigilano sulle azioni dei potenti.
E la cosa più singolare è che soltanto un terzo degli italiani, secondo uno studio del 2019 condotto dal Reuters Institute, pensa che il ruolo del giornalismo sia quello di cane da guardia del potere. Un dato che ci colloca al penultimo posto d’Europa.
Ecco perché questa vicenda andava raccontata. Dimostra che il giornalismo libero esiste ancora. E che non è vero che alla fine vincono sempre i potenti.
Egidio Morici