Tredici anni di atmosfera politica e giudiziaria arroventata hanno portato ad una sentenza d’Appello sulla Trattativa Stato-mafia che ci dice che la trattativa c’è stata, così come la minaccia allo Stato. E’ per questo che Bagarella e Cinà sono stati condannati. Per i carabinieri del Ros invece la trattativa sarebbe consistita in un’attività di indagine per ottenere informazioni utili a bloccare la violenza sanguinaria di Cosa nostra contro lo Stato.
Dell’Utri, infine, è stato pienamente assolto, non avendo fatto da tramite con Berlusconi per ottenere favori dal governo a Cosa nostra.
Questo ci dice il dispositivo della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Palermo di giovedì scorso, presieduta dal giudice Angelo Pellino. Per il resto bisognerà aspettare le motivazioni, previste entro 90 giorni.
Dopo la sentenza, diversi editoriali ed interviste hanno raccontato la vicenda dal loro punto di vista.
Se Il Fatto Quotidiano parla dei “Negazionisti della trattativa”, Il Giornale scrive dei “negazionisti della giustizia”, indicando Travaglio ed Ingroia come “gli ultimi giapponesi del giustizialismo”.
LE INTERVISTE
Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno assolto in primo grado, intervistato da Repubblica, dice che il processo non andava celebrato e di essere stato vittima di “un teorema che doveva mortificare lo Stato e un suo uomo. Sono stato volutamente additato ad emblema di una trattativa inesistente – ha detto a Concetto Vecchio di Repubblica - relegato perciò per anni in un angolo. Non mi invitavano più neanche al Senato”.
“E’ stata una sorpresa – dice invece, commentando la sentenza in un’intervista pubblicata dal Foglio – non perché non mi aspettassi l’assoluzione, ma perché sono state completamente ribaltate le condanne di primo grado. I giudici sono stati coraggiosi”.
E sempre sul Foglio, dice del Ros: “Io ritenevo che fosse una risorsa nella lotta alla mafia, del resto la determinazione c’è stata e i boss come Riina sono stati arrestati. Non c’è stato un cedimento. Ci sono stati una serie di colloqui che forse avevano uno scopo investigativo”.
Claudio Martelli, ministro della Giusitizia tra il ’91 e il ’93, vede i due processi di Palermo come uno scontro di potere tra pm e carabinieri. E al Giornale spiega che “trattare con la mafia è altro. Qualche mese fa è stato liberato Giovanni Brusca, l’assassino materiale di Falcone, dopo una trattativa di anni perché collaborasse in cambio di un trattamento speciale, di sconti di pena. Una trattativa appunto. L’intelligenza di questa sentenza non è che manda assolti tutti, ma che dice: non ci sono reati”. Duro su Ingroia: “Un magistrato che scrive un libro e lo intitola ‘Io so’. Nelle prime pagine avverte di non potere provare ciò che dice, come se non fosse un magistrato che questo deve fare. Poi si dimette, accetta un incarico in Guatemala, torna e fonda un movimento che fa flop. Che dire: una risata lo seppellirà”.
Antonio Ingroia, oggi avvocato e in passato tra i pm che coordinarono il procedimento sulla Trattativa Stato-mafia, intervistato dal Dubbio, sulla sentenza d’Appello dice: “I giudici dicono che c’è stata una trattativa, che c’è stato un papello, che è arrivato al governo tramite gli ufficiali del Ros. Ma non avendolo fatto con l’intenzione di minacciare lo Stato, per loro non è reato”.
Giuseppe Di Lello, ex componente dell’ufficio istruzione di Palermo (che ha lavorato nel pool antimafia con Falcone e Borsellino), intervistato da Salvo Palazzolo di Repubblica, dice che si aspettava questo esito del processo Trattativa: “Sul piano giudiziario c’era un’interpretazione dei fatti che definisco giornalistica”. Secondo Di Lello “I mafiosi provarono a ricattare con le bombe. I carabinieri fecero solo un’operazione di polizia”.
Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso in via D’Amelio, fa sapere di aver sempre dubitato di quest’inchiesta, dicendo che i carabinieri sotto accusa erano sempre stati al fianco di suo padre.
“Mio padre non ha mai scritto libri sui suoi processi – dichiara in un’intervista a Libero – diceva che la procura di Palermo era un ‘nido di vipere’”. Poi, sul dossier Mafia e appalti Fiammetta è molto diretta: “Pur essendo passati ormai tanti anni, non mi capacito del fatto che nessuno abbia mai voluto fare luce sul perché venne archiviato questo dossier, a cui mio padre aveva manifestato di tenere moltissimo”. E quando Jacobazzi di Libero le chiede di cosa trattasse nello specifico questo dossier, risponde così: “Era un’informativa redatta da Mori e dall’allora capitano Giuseppe De Donno con Giovanni Falcone sul rapporto tra mafia, politica e appalti a livello nazionale. E’ anche per questo che la tesi sulla Trattativa non mi ha mai convinta. Del resto bisognava farsele delle domande. Io me le ero poste. Oggi una sentenza ci ha dato una risposta di giustizia”.
Lo storico della mafia Salvatore Lupo, che sette anni fa aveva smontato la tesi della Trattativa in un libro, “La mafia non ha vinto” (scritto insieme al giurista Giovanni Fiandaca), intervistato dal Messaggero ha detto: “I pm indaghino sui reati. E in questo caso era chiaro che non ce ne fossero”.
GLI EDITORIALI
A parte il Fatto Quotidiano, gli editoriali dei giornali non sono certo stati morbidi nei confronti della Trattativa.
Secondo Carlo Nordio del Messaggero, “Certi Pm hanno voluto distorcere la Trattativa”. Nel senso che bisogna tener presente che “lo Stato ha sempre trattato – in modo più o meno riservato – con le peggiori cosche criminali dell’Italia e del mondo” dalle Brigate Rosse ai dirottatori della Achille Lauro, fino ai banditi sequestratori di ostaggi di oggi. “Ora una sentenza della Corte superiore ci dice che Mori e compagni hanno esercitato una facoltà legittima, o addirittura un dovere”. “In un paese normale – aggiunge Nordio - magistrati che prendono simili cantonate il giorno dopo cambiano mestiere”.
Secondo Claudio Cerasa del Foglio, “non ci sarà mai una lotta vera contro il complottismo e le fake news se non si avrà il coraggio di mettere un tappo sopra a quella fogna chiamata circo mediatico-giudiziario”. “E’ stata archiviata con una sentenza la stagione di una magistratura chiodata – scrive Cerasa nel suo editoriale intitolato “La vera bestia: il populismo giudiziario” - che ha tentato di utilizzare l’arma della via giudiziaria per provare a combattere la casta del potere politico”.
Molto incisivo lo scrittore Enrico Deaglio che, nel suo editoriale sul Domani, ringrazia il giudice Pellino “per aver messo uno stop a tutta questa schifezza”. Deaglio parla di un “pensiero unico fatto di nulla” alla base della creazione dell’idea della Trattativa. “Un insulto pervicace (e sadico) alla memoria di Falcone e Borsellino operato dai suoi colleghi magistrati, una palestra per ambizioni politiche, per fortuna in genere fallimentari; e soprattutto la creazione di una ‘narrazione’ (brutto termine, lo so, ma efficace) che dice che lo Stato e la mafia sono la stessa cosa, argomento che ha fatto il successo del partito di Beppe Grillo e del giornalista Marco Travaglio”.
Di tenore completamente diverso è invece l’editoriale di Marco Travaglio, sul Fatto Quotidiano, che mette l’accento su una Trattativa che comunque c’è stata. “Non era reato? E’ la tesi della Corte – scrive Travaglio – Ma che trattarono non c’è dubbio: infatti nel ’97, appena Brusca svelò la trattativa, anche Mori e De Donno la chiamarono così. Ora si dice che finsero di trattare in un’astuta operazione di infiltrazione per raccogliere informazioni e catturare Riina. E allora perché non avvertirono il pm e il vertice dell’Arma?”.
Di certo la sentenza è stata commentata in modo molto polarizzante. Ma questa contrapposizione, al di la delle posizioni ideologiche, può essere spiegata dalla mancata conoscenza dei capi d’imputazione.
Il punto è fondamentale e viene spiegato molto bene nell’editoriale di Armando Spataro, su Repubblica, intitolato “Perché la Trattativa non è reato”.
Coloro che criticano la sentenza, spiega Spataro, affermano che
“se la trattativa tra mafia e istituzioni c’è stata (“il fatto sussiste”) non sarebbe accettabile che siano stati condannati solo i mafiosi affiliati e invece assolti gli ex alti ufficiali dei Carabinieri (“Perché il fatto non costituisce reato”), essendone stati, gli uni e gli altri, gli attori.
Ma proprio qui sta l’errore: la contestazione in sede penale non è quella di avere dato luogo ad una trattativa – reato non previsto dal nostro codice penale – ma di avere tutti, in concorso tra loro ed a partire dal 1992, minacciato esponenti politici e delle istituzioni prospettando stragi ed altri gravi delitti, per condizionare la regolare attività del governo e di altri corpi politici”.
Insomma, ai carabinieri non era contestato il dialogo con i padrini, ma di avere partecipato alla minaccia.
E sarebbe davvero folle pensare che le istituzioni volessero rafforzare le iniziative dei boss.
Scrive ancora Spataro, “va respinta l’immagine del magistrato che si propone anche il compito di scrivere la storia oltre l’unico che gli compete, cioè quello di provare la responsabilità degli autori dei reati con riscontri oggettivi”.
E allora ha forse ragione Leoluca Orlando, quando dice “Basta deleghe ai magistrati” ed invoca “una commissione parlamentare d’inchiesta che analizzi gli atti, anche secretati”, visto che “la verità storica può prescindere dalla sentenza”. Una commissione, precisa Orlando, in un’intervista a Repubblica, “non sul processo, ma sui fatti: altrimenti dovremmo aspettare che si formi un consolidato storico per arrivare ad una verità presumibile”.
Ma la politica tende spesso ad autoassolversi, gli fa notare il giornalista Claudio Reale.
Orlando ha risposto che possiamo affidare ai magistrati soltanto il compito di fare giustizia secondo le regole del diritto. “Questa sentenza è un campanello d’allarme – ha aggiunto – ci invita a non delegare più”.
Egidio Morici