Sono tempi difficili, tempi incerti. Ero tutto in ghingheri perché oggi avrei dovuto essere a Madrid, ospite del Centro Dramatico Nacional, per un evento molto bello sulla Sicilia e sulla ricostruzione di Gibellina. Era il primo evento internazionale a cui partecipavo di presenza da quando è accaduto “tutto”. E invece tra un colpo di tosse, una raschiata di gola, un naso gocciolante, ci siamo trovati tutti raffreddati a casa. Beati i tempi in cui, come avrebbe detto la poetessa a me cara, uno starnuto è uno starnuto e uno starnuto. Oggi al primo starnuto che senti ti si ferma il cuore. E quindi, abbiamo dovuto, come prudenza impone, isolarci e tamponarci. Addio aereo, addio Madrid.
Una cosa che mi piace della lingua spagnola è che non esiste la parola verità, cioè esiste, è “verdad”, ma va accompagnata da un aggettivo possessivo: mi verdad, la mia verità. La verità non esiste, ognuno ha la sua.
Lo vediamo dappertutto, ormai (ho provato a spiegarlo anche tempo fa, senza esito, ad un sindaco …) soprattutto nei campi che più polarizzano lo scontro. Non c’è una verità, ma ognuno ha la sua verità.
Uno dei campi dove ognuno ha la sua verità, ad esempio, è quello sulla famosa (o famigerata, ormai) “Trattativa Stato - mafia”. La Corte d’Appello di Palermo, giovedì scorso, ci ha regalato un’altra verità ancora, su una vicenda dove davvero i punti di vista sono diversi, complessi e lo scontro è molto ideologizzato. La mia verità, dice la Corte d’Appello, è che la trattativa c’è stata, si, ma da un lato solo. E’ per questo che, in buona sintesi, sono stati condannati i mafiosi, e non gli imputati del mondo della politica o delle istituzioni. I mafiosi hanno fatto tutto da soli, gli altri, i vertici dei Carabinieri, ad esempio, stavano al gioco per ragioni investigative. Solo così si spiega lo sbilanciamento tra l’assoluzione di Moro, De Donno e Subranni e ventisette anni per Bagarella, l’ultimo di quella stagione ancora vivo (se vivo è un uomo nelle sue condizioni…).
E’ plausibile? Non lo sappiamo. E’ una verità.
E ancora una volta penso che il punto sta proprio in questo. Possiamo davvero continuare ad affidare ai tribunali la ricerca della verità?
Se vogliamo prenderla con maturità, una cosa positiva questa sentenza, forse ce l’ha. Ci dice che è finita, finalmente, la stagione delle della delega ai magistrati circa il tema vasto di ciò che è “lotta alla mafia”, è finito il tempo dei supporter e dei cori da stadio per i giudici. Ma non perché escono sconfitti da questa vicenda giudiziaria (che secondo me, tra l’altro, sarà foriera di altre verità …), non perché l’impianto dell’accusa non regge, ma perché non regge l’impalcatura che sta dietro, ovvero quella di un Paese che pensa che tocchi ai magistrati fare luce sugli anni difficili della nostra storia. E’ qualcosa che i magistrati non possono e non devono fare. Toccherebbe agli storici, ai giornalisti, agli studiosi. Solo che negli anni questi sono stati zittiti, o sono rimasti inascoltati, o sono anche loro diventati tifosi.
Cominceremmo così, come nei convegni alla moda, dove non si dice più "mafia", ma "mafie", al plurale, per fare capire che il nemico si annida ovunque, anche noi a smetterla di parlare di "trattativa", e iniziare ad utilizzare il termine al plurale. Le trattative. Che si consumano ogni giorno, da quando esiste la mafia, perchè sono nella natura stessa della mafia. La trattativa per lo sbarco degli Alleati in Sicilia, e quella, tutta locale, che portò all'egemonia dei Salvo e dei politici a loro vicini in Sicilia occidentale, per dire le prime due che mi vengono in mente. E, a proposito dei Salvo, le trattative che portarono i padri impegnati con loro in politica a fare spazio ai figli e ai figliocci. E perché, la gestione stessa di un pentito non è una trattativa, da Buscetta all'ultimo dei collaboratori di giustizia. Interrogarsi su queste trattative non significa fare di tutta l'erba un fascio, nè minimizzare, ma anzi è una sifda coraggiosa, coraggiosissima, perchè si tratta di indagare, una volta per tutte, sulla natura della mafia e sulla natura stessa del potere pubblico in Italia. E non lo può fare un tribunale, perchè non dobbiamo cercare reati, ma in sintesi è una specie di collettivo, generazionale, esame di coscienza. Significa guardare nell'abisso che è dentro la storia italiana, è per questo che prendo come immagine di questo articolo quella utilizzata ieri dalla nostra Katia Regina.
Se questa sentenza, davvero, farà nascere una nuova stagione, non di accanimento, ma di ragionamento, non di delega, ma di partecipazione, allora non sarà passata invano.
Giacomo Di Girolamo