di Katia Regina
Ci vorrebbe Marco Paolini. Avete presente i suoi spettacoli di teatro civico? Da solo sul palco, una lavagna e un gessetto e giù a raccontare come sono andate le cose quella volta. Paolini è bravo a raccontare le storie, parte da fatti concreti, i suoi ragionamenti seguono un filo logico, cita fonti e prove. Alcuni hanno questo dono, la capacità di illuminare un mistero, renderlo comprensibile a tutti. Le sentenze non si discutono, lo sappiamo bene, abbiamo firmato un patto sociale che prescrive alcune regole del gioco, e chi non le rispetta è fuori... gioco. Le perplessità te le tieni almeno fino a quando non arriveranno le motivazioni, sempre che siano in grado di scioglierle. Sì perché nelle 5252 pagine di motivazioni della prima sentenza, quella che li condannava, c'erano fatti ben circostanziati, prove e tutto quello che serviva per arrivare a delle condanne.
In questi casi penso che i giudici siano un po' come i filosofi presocratici, i naturalisti della scuola di Mileto, quelli che cercavano l'elemento primo, l'archè. Avevano tutti ragione, ciascuno con la propria intuizione, ed erano così bravi a convincerti, almeno fino a quando non venivano confutati dal filosofo successivo.
Dalle nostre parti la faccenda si liquida così: “un c'è nienti” e tutto torna a posto. Quante faccende abbiamo risolto con questa formuletta magica? Tante, troppe, quasi tutte quelle che avrebbero compromesso certi equilibri. Una produzione teatrale mastodontica a spese dei contribuenti, tredici anni di farsa con attori illustri sempre in scena, ogni tanto un piccolo scoop, un approfondimento giornalistico, un'intervista in esclusiva... e poi di colpo: “un c'è nienti”, da non confondere con “nienti c'è” in uso solo quando le persone coinvolte nella disputa sono individui di poco conto. Vero è che le cose sono successe, ma non è stato fatto per male, altra formula magica per disinnescare il pericolo. Dalle nostre parti quando succedono cose così la scena si arricchisce sempre di un personaggio, una figura fondamentale, il peace-Keeper, generalmente un volontario che si improvvisa pacificatore, sarà lui a formulare a voce alta la frase magica e successivamente ad accompagnare i protagonisti della disputa a prendere un caffè al bar. Perché diciamolo, una volta per tutte, non c'è situazione, per quanto delicata, che non possa essere risolta condividendo il rito del caffè.
Il fatto non costituisce reato è solo una formula più evoluta, più appropriata giuridicamente, se vogliamo, ma nella sostanza poco cambia. Se qualcuno mi ruba il motorino e lo incendia e poi minaccia di fare lo stesso con la mia macchina che devo fare? Posso chiedere in giro, magari a qualcuno influente, se posso trattare la restituzione del mezzo? Certo dovrò offrire una contropartita per questo favore e sarà mia premura assicurare che farò il possibile per accontentare le richieste dei responsabili del furto.
Ebbene, in questo caso la legge parla chiaro, non posso scendere a patti con dei delinquenti, divento complice anch'io. Lo scenario cambia dunque se i protagonisti coinvolti sono mafiosi di alto rango e uomini delle istituzioni? Mah! Sapiddru, direbbe mia nonna, abbracciando quel fatalismo necessario alla sopravvivenza degli isolani, perché ci sarà di sicuro qualcuno che sa come sono andate le cose, un iddru impossibile da indicare con precisione, un iddru di cui si avverte solo una profonda nostalgia.
Dalle nostre parti, ma non solo, il fatalismo riempie di senso i misteri e i problemi che non si possono risolvere è meglio rimuoverli, conviene a tutti, tutti quelli che non sono morti nel frattempo nel tentativo di scoprire la verità.
Consigli per la lettura: Il patto sporco di Nino Di Matteo; Siculospirina di Pippo Russo