Che anno, però, questo 2023, per la Sicilia. Quante cose da raccontare, quanti personaggi, quanti eventi. Ma il fatto dell’anno, qual è? Non l’arresto e poi la morte di Matteo Messina Denaro, boss stragista latitante da trenta anni. Non le tante donne morte sotto la mano assassina di compagni, fidanzati e mariti. Neanche l’annuncio del Ponte sullo Stretto, no. O l’afa record di luglio, la siccità di questo dicembre che sembra giugno, la vendemmia, per la prima volta nella storia, sospesa per protesta.
Il fatto dell’anno è una notizia piccola, da poche righe in cronaca, un evento passato quasi inosservato, che fuori dalla Sicilia è stata una breve, nelle pagine interne, o poco più. Eppure è una di quelle notizie che apre uno squarcio, che vede un allineamento di mondi, che si concentrano in unico, tragico istante. Un istante che condensa come un punto di non ritorno, un precipitare delle cose, una lunga catena di what if, di tanti episodi che potevano essere semplicemente normali, e non lo sono stati.
E di anomalia in anomalia si arriva al disastro che non sarebbe accaduto se la Regione e i Comuni avessero davvero affrontato adeguatamente l’emergenza incendi, se questi non fossero stati enormi e alimentati dalla gran calura di una Sicilia sempre più desertica, se l’isola non avesse un sistema della viabilità interna che ormai è pietra di paragone, per la sua inefficienza, per il mondo intero, e se gli enti che governano tutto questo non fossero ancora oggi poltronifici per tutti i governi.
La notizia dell’anno, dunque, avviene all’alba del 9 ottobre, un banale lunedì mattina, giorno dei pendolari che rientrano al lavoro. E al lavoro stava tornando pure Francesco Vincenzo Maniaci, un giovane uomo di quarantatré anni, di Sant’Agata di Militello. Siamo in provincia di Messina, sul mare. Alle spalle, la maestosità impenetrabile delle montagne dei Nebrodi. Chicco Maniaci fa il medico. È uno dei pochi che non scappa nel privato, preferisce ancora il pubblico. Fa il medico legale all’Inps di Trapani, dalla parte opposta della Sicilia. Parte il lunedì, torna a casa il venerdì. Quando può, anche prima. Ci fosse un treno, magari lo prenderebbe. Ma treni non ce ne sono.
Se per sport provate a chiedere, al portale di Trenitalia, la migliore soluzione per collegare Sant’Agata con Trapani prevede sette ore (salvo imprevisti) e due cambi. Rimane allora, per un siciliano come il medico Maniaci, solo la possibilità dell’auto. Sono tre ore, anche qui salvo imprevisti, che il giovane pendolare conosce bene, tanto che sui social si è anche lamentato parecchio delle condizioni delle strade: il traffico ingestibile a Palermo, i cantieri eterni in autostrada, oppure, d’estate capita, uno dei tanti incendi che invadono la carreggiata e costringono gli automobilisti a fermarsi in attesa della Protezione Civile. Ma è ottobre e incendi non ce ne dovrebbero essere più, pensa magari il medico Chicco quando si mette in auto.
Non vivrà abbastanza per vedere i roghi che hanno devastato la Sicilia fino a dicembre. Non vivrà abbastanza per arrivare fino al suo ufficio a Trapani. Non vivrà in realtà che pochi chilometri ancora, il povero medico. Perché, arrivato all’altezza del km 174 – annoterà la Polizia Stradale – dopo un’ora di viaggio, tra Cefalù e Termini Imerese, viene ucciso. Ucciso da un albero, un pino. Ucciso da un albero che cade sull’autostrada nell’istante esatto in cui la sua auto stava passando lì sotto. Poteva capitare a chiunque, in pratica. È capitato a lui.
Come può un albero cadere così? Perché in realtà il pino lì non ci doveva essere. Era stato colpito dalle fiamme durante i due giorni che a settembre avevano devastato la costa nord della Sicilia (con il vescovo di Cefalù che aveva attaccato duramente il presidente Schifani: «Occorre una mobilitazione generale contro l’inerzia colpevole del governo regionale»).
L’albero era stato morso dal fuoco. Ma aveva resistito. Era rimasto in qualche modo in piedi. Nessuno, però, tra gli operai del servizio antincendio della Forestale, gli impiegati del Consorzio Autostrade Siciliane, le pattuglie della Protezione Civile, si era preso la briga di controllarlo, quell’albero lì. Che ha resistito quanto ha potuto. E poi non ce l’ha fatta più: all’alba di un lunedì di ottobre, è precipitato, sfondando l’abitacolo dell’auto che in quell’istante passava da lì, travolgendo il conducente.
Un secondo in più, un secondo in meno, e Francesco Vincenzo Maniaci sarebbe ancora vivo. La sorella Valentina, straziata, lo ricorderà come una «persona ordinata, precisa, prudente, soprattutto quando guidava».
Si dice sempre che la cattiva politica crei delle vittime. Accade poi, ed è un caso rarissimo, che tante cattive politiche creino una sola vittima, che sembra sacrificarsi per tutti. Se oggi la Sicilia avesse trasporti più efficiente – anziché assistere all’imbarazzante balletto di cifre sul Ponte sullo Stretto – se si fosse fatta una campagna di prevenzione degli incendi per tempo, se la rete autostradale fosse stata gestita con la serietà che si deve a una fondamentale rete di comunicazione (il Consorzio Autostrade Siciliane è stato oggetto di otto inchieste in dieci anni per la mancanza dei requisiti di sicurezza), se solo ognuno dei tanti soggetti coinvolti in questa storia avesse fatto il suo dovere, Chicco Maniaci sarebbe ancora vivo. Gli è toccato morire, per noi e tutti, addossandosi su di sé tutti i mali del 2023 in Sicilia. Voleva fare il medico, fare il suo lavoro, mica il capro espiatorio. Gli è toccato morire così, in una giornata di sole, senza vento, la vita spezzata da un albero, sull’autostrada Messina-Palermo.