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26/01/2024 06:00:00

Gli agricoltori che protestano mettono sotto pressione la politica in Sicilia

I meriti vanno riconosciuti: dopo ventuno anni di tribolati esercizi provvisori la Regione Siciliana ha un bilancio approvato dal suo parlamento a gennaio, senza ricorrere alla tagliola dell’amministrazione in dodicesimi, l’avventura in cui si sono impantanati tutti i recenti governi che si sono succeduti alla guida dell’Isola. Tutti, tranne uno, quello di Renato Schifani, appunto. Il presidente, alla guida dell’esecutivo regionale da un anno, può autoproclamarsi il primo che ha portato il bilancio a casa in tempo, approvato all’inizio di gennaio, giusto alla prima seduta d’aula dopo la pausa per le feste natalizie. E il tutto con una maggioranza traballante, dilaniata da litigi su ogni grande tema, dal dossier rifiuti alle nomine della sanità, dai dispetti reciproci sul Ponte di Messina, ristori per gli incendi, e altro ancora.


Esperto delle cose di palazzo, l’ex presidente del Senato ha capito qual era il punto debole per mettere d’accordo tutti, maggioranza e opposizione: i soldi. Follow the money, avrebbe detto Giovanni Falcone. Segui i soldi, e, come sempre, troverai la via d’uscita nel complicato labirinto della politica. Pertanto, Schifani ha dato il via libera all’operazione: assegnare un tot ai deputati di maggioranza, un tot (inferiore, ma non mortificante) ai deputati dell’opposizione. In soldoni: seicentomila euro per ogni componente della maggioranza, trecentomila per chi sta all’opposizione.


Ognuno poteva decidere cosa farne, a chi assegnarli, in iniziative singole o con il gruppo parlamentare (mettendo insieme magari più quote, come si fa nei regali in busta ai matrimoni): una parrocchia, un carnevale, un museo, una rassegna teatrale, una strada, una piscina. Ne è venuta fuori questa finanziaria con un maxi emendamento che è un elenco di mance. Dai Comuni cari ai deputati per i loro collegi elettorali, fino agli enti amici, e alle manifestazioni utili come vetrina di questo o quel deputato, o gruppo.

La lista degli invitati nel privè della legge di bilancio ha scatenato una guerra tra sindaci. Chi non ha avuto il becco di un euro accusa il collega del Comune confinante di essere raccomandato, perché, in effetti, i primi cittadini che hanno ricevuto un contributo sono un’élite: su trecentonovantuno comuni, solo un terzo ha ottenuto fondi. Prendete Cerda, in provincia di Palermo, paese di cinquemila abitanti celebre per i suoi gustosi carciofi. Ha ottenuto cinquecentomila euro proprio per la Sagra del carciofo. Una cifra enorme. Vale la pena ricordare che il sindaco, Salvatore Geraci, è deputato regionale, ed è passato di recente dall’opposizione ai banchi della maggioranza (adesso è nella Lega). Catania, invece, “solo” trecentomila euro (non coltiveranno carciofi, sotto l’Etna …). Agrigento, capitale italiana della cultura 2025, indietro su tutti i fronti, non ottiene nulla. Neanche un carciofo.


L’elenco dei progetti finanziati è molto lungo. Tra un campo di bocce da realizzare a Modica, e la sagra dell’arancino a Rosolini, spunta anche il singolare caso di un’associazione di Catania, la All Stars, che ha ricevuto centomila euro per organizzare una partita di calcio per raccogliere fondi per i centri anti-violenza. C’è molta ironia in questa scelta, se consideriamo che proprio i fondi per i centri anti-violenza della Regione hanno risorse irrisorie.

Scorrendo l’elenco, a un certo punto, poi, spuntano le arance. Un comma del maxi emendamento, infatti, impegna la Regione a comprare sette milioni e mezzo di euro di arance. Ipotizzando cinquanta centesimi al kg, sono quindicimila tonnellate di arance. Per capire meglio: due milioni di cassette di arance. Presi dal forcing tra una mancia e l’altra, come in trance, questo è l’unico modo che i deputati regionali hanno trovato per dare una risposta alla grave crisi che affronta il comparto agrumicolo siciliano. Non sapendo cosa fare, hanno scelto di giocare facile: una mancia. Maxi, però. Ecco da dove spuntano questi due milioni di cassette di arance, che verranno poi «conferite alle industrie di trasformazioni per la produzione di succhi».

Una mega spremuta, in pratica. Per chi o per cosa, non è stato detto. L’importante era dare il segnale al comparto in ginocchio. D’altronde di segnali vive la politica siciliana (non è che quella nazionale sia molto diverso): rare le riforme strutturali, facili e consuete, invece, le soluzioni rapide, i soldi pochi, maledetti e subito, che permettono poi al deputato o all’assessore di poter dire: «Ti ricordi di me?», al beneficiario.

È chiaro a tutti che si tratta di una soluzione tampone per un problema che andrebbe affrontato con altri mezzi. La crisi dei produttori di arance e di agrumi, in generale, è dovuta alla tempesta perfetta che si abbatte sull’agricoltura siciliana, stretta nella tagliola tra la siccità, innanzitutto (il 19 gennaio si è segnato il record mensile, da quando esistono le misurazioni della temperatura: 24,5 gradi) e l’aumento dei costi di produzione.

E se in Sicilia orientale, la lobby degli agrumicoltori fa sentire la sua voce, stessa cosa non può dirsi, invece, dei viticoltori della Sicilia occidentale, che quest’anno hanno conosciuto, anche a causa del ritorno del fungo della peronospora, un calo della produzione di uva, in media, del trenta per cento (con punte del cinquanta per cento in provincia di Trapani), con i contadini che, prima volta nella storia, hanno dovuto interrompere la vendemmia, perché i costi erano più dei ricavi.

Per loro, nella Finanziaria delle mance, non c’è quasi nulla. Di fronte a danni certificati per trecento milioni di euro, dal parlamento siciliano sono arrivati aiuti per appena venticinque milioni, senza nessuna misura concreta di sostegno. Qualcuno avrà pensato di inserire magari un emendamento per comprare due milioni di bottiglie di vino, sicuramente, ma la cosa poteva diventare imbarazzante. Quindi, poche risorse, tante pacche sulle spalle, e i soliti ordini del giorno per chiedere l’accorato intervento del governo di Roma.

Solo che i contadini questa volta non sono rimasti a guardare. La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata in realtà la goccia mancante. Perché oltre a tutto questo, a metà gennaio, gli agricoltori delle province di Trapani e Agrigento hanno dovuto subire pure il razionamento dell’acqua a causa non solo della siccità, ma della cattiva manutenzione delle dighe, della rete idrica fatiscente che comporta una grande perdita di acqua, e per la presenza pure di alghe tossiche che rende inutilizzabili alcuni laghi artificiali.

Hanno così cominciato a protestare. Prima, l’occupazione con i trattori, di piazze e luoghi di mercato. Adesso, anche i cortei. Il 20 gennaio una lunga colonna formata da cento trattori, partita dal sud-est della provincia di Trapani, ha attraversato la strada Sciacca-Palermo, trainando un carro funebre. La metafora non va spiegata. «Se muore l’agricoltura – dicono i manifestanti – muore tutta l’economia siciliana».

Denunciano anche l’acquisto dei terreni a prezzi di svendita da parte delle multinazionali dell’energia, per installare parchi eolici o fotovoltaici. La Sicilia è uno dei territori più vitati d’Europa (metà sono in provincia di Trapani). Negli anni 2000 si contavano circa centosessantamila ettari, nel 2009 siamo scesi a circa centoventicinquemila ettari, adesso rimangono coltivati circa centomila ettari a livello regionale. Il prezzo dell’uva al quintale è crollato a trenta euro.

Non va meglio nella cerealicoltura. Il calo dei raccolti è stato accompagnato dal taglio dei compensi riconosciuti agli agricoltori che sono scesi del quaranta per cento rispetto allo scorso anno. «Non è accettabile – afferma la Coldiretti – che di fronte all’aumento del prezzo della pasta al consumo (che secondo Istat a giugno era pari al dodici per cento), il grano duro necessario per produrla venga invece sottopagato appena trentatré centesimi al chilo agli agricoltori che per potersi permettere anche solo un caffè devono vendere ben quattro chili di frumento».

Imprenditori agricoltori, contadini, titolari di cantine, e tanti altri si sono anche organizzati in un movimento che sta prendendo vita in queste ultime tumultuose ore e che si chiama “La Sicilia alza la voce”. L’idea è quella di dare vita a una stagione di proteste e blocchi stradali, come avvenne anni fa con il movimento dei Forconi, e come sta avvenendo, in questi giorni, in altri Paesi europei.

La politica guarda questi manifestanti con ansia. In settimana sono stati annunciati altri raduni e cortei, si preparano giorni intensi e complicati. Governo e maggioranza non sanno cosa rispondere. Male che vada, la strategia è pronta: ci sarà pure qualche sagra da finanziare per fare contenti anche loro.