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04/12/2009 05:16:12

Quell'appartamento al tredicesimo piano (Gandolfo, Di Pietra, e un procedimento molto originale...)

 

I fatti. Il 5 dicembre del 2003 Di Pietra telefona a Gandolfo e lo minaccia. A dimostrazione della bontà delle proprie illazioni si presenta presso lo studio dell'avvocato Gandolfo per ribadire, come da verbale:  “Sei un delinquente, sei un mafioso, la tua razza è mafiosa, se hai le palle denunciami. Se vuoi te lo metto per iscritto”. Di Pietra si dimostra uomo del fare, prende penna e calamaio davanti a Gandoldo e scrive “Io sottoscritto Alberto Di Pietra, nato a Marsala il 10-04-1943, dichiaro che i parenti (nonni e zii) dell'avvocato Gandolfo Giuseppe erano tutti mafiosi”. Contestualmente alla firma, approfitta della presenza del padre del Gandolfo per ribadire “hai un figlio delinquente”. Il tutto avveniva in presenza di altri due testimoni e l'imbarazzo generale. Immediata la querela.

Ma chi è Di Pietra? Negli anni '90 Alberto Di Pietra fu arrestato all'interno dell'operazione antimafia “Patti pù 40” con l'accusa di associazione mafiosa. Successivamente fu assolto, ma fu sottoposto alla misura della sorveglianza speciale, e gli fu sequestrato un immobile, del quale non era riuscito a provare la lecita provenienza. E' stato proprio questo immobile la causa di tutto.  La lamentela di Di Pietra  nasceva proprio dalla confisca che era stata fatta su questo immobile: si tratta di un appartamento al tredicesimo piano del Palazzo Grattacielo, in Via Curatolo. Questo appartamento verrà poi dato in gestione dal Comune di Marsala al Cif (Centro Italiano Femminile) e utilizzato anche da Libera, diretta all'epoca da Gandolfo, sulla base di un protocollo stipulato da Prefettura, Enti locali, Agenzia del demanio e C.R.E.S.M.

Il giorno precedente alla diffamazione Gandolfo, sulle pagine di Marsala C'è, dichiarava “Ritengo positivo quanto disposto dalla normativa vigente e non capisco perchè non si dovrebbero confiscare i beni a chi è stato assolto dall'accusa di associazione mafiosa, ma ha lucrato illecitamente o comunque non è riuscito a dimostrare con quali mezzi ha acquisito il bene confiscato”. Da qui l'ira di Di Pietra.

La vicenda è del 2003. Stranamente, il dibattimento comincia nel febbraio del 2008. Giuseppe Gandolfo è difeso dall'avvocato Mario Fodale mentre Alberto Di Pietra viene assistito dall'avvocato Stefano Pellegrino. L'impianto difensivo di quest'ultimo si regge sulla introduzione di una nuova fattispecie giuridica, che potremmo chiamare il “riflesso di colpa”. Pellegrino infatti ha depositato le copie dei processi “Omega” e “Patti più 40” confidando che i presunti riferimenti  alla mafiosità di parenti lontani e omonimi del Gandolfo, potessero  giustificare la diffamazione operata da Di Pietra. L'obiettivo sembrava quello di ribaltare la situazione trasformando un processo per diffamazione in un processo al diffamato, il tutto con la memoria storica di due testimoni d'eccezione, il Tenente dei Carabinieri Carmelo Canale e l'architetto Nunzio Giacomarro.

Durante l'udienza del 18 maggio 2009, ad esempio, Giacomarro ha dichiarato “Conosco bene la storia della città di Marsala ed ho fatto centinaia di denunce in riferimento alla corruzione che c'era a Marsala. Mi risulta che c'era qualche procedimento, nel periodo di circa 40 anni, che sussisteva a carico della famiglia Gandolfo; non ricordo i dati oggettivi per i quali la famiglia Gandolfo veniva qualificata nell'ambito della mafia, ma ricordo che sono stati incriminati: tra i soggetti di cui ho parlato e l'avv. Gandolfo vi era un rapporto di parentela. Di Pietra Alberto è un vero galantuomo, sono un suo amico. Non sono a conoscenza del fatto che il Sig. Di Pietra è un sorvegliato speciale”. Giacomarro conosce la storia di Marsala ma ignora che il suo amico Di Pietra, galantuomo, sia un sorvegliato speciale.

Il Tenente Canale ricorda durante l'udienza dell'11 novembre 2009 che “ i Gandolfo operavano agli inizi del 1900. Uno dei due Gandolfo era scapolo ed entrò nella famiglia Licari”.

L'assoluta inconsistenza fattuale di quanto riportato si è tradotta nella condanna di Antonio Di Pietra. L'avvocato Stefano Pellegrino, il tenente Carmelo Canale, il sorvegliato speciale Di Pietra, dopo la sentenza, sono andati al bar, a prendere un caffè. Di Pietra ha presentato appello.