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10/12/2011 06:48:12

"Mancu l'ossa"

E perché la furia di un bacillo pestilenziale può rivelare tutta la sublimità e la miseria dell’animo umano? Perché un bravo borghese timorato di Dio può trasformarsi di colpo in un mangiapreti rivoluzionario? E un povero matto insegnare ai sani di mente il segreto dell’eterna felicità?
Devo, in buona parte, la conoscenza di questi strani interrogativi – e non solo di questi, come si vedrà nel corso dei miei racconti “garibaldini” – a un mucchietto di opuscoli ingialliti, riscoperti una ventina di anni fa, nei giorni di un trasloco doloroso, fra gli scaffali alti della biblioteca di mio padre a Milano. Erano nascosti con cura dietro le schiere compatte dei libri, e non è difficile comprenderne il perché: il loro aspetto misero e disfatto, ovviamente (“smiciaciàto”, avrebbe detto papà); e poi quei loro titoli bizzarri, o lunghi abbastanza da far quasi perdere la pazienza: La birritta magica, o sia la mazzuliata a li parrini; Il testamento dell’asino; Storia dell’Isola Ferdinanda sorta nella costa meridionale della Sicilia; Descrizione istorica del cholera asiatico avvenuto in Palermo in quest’anno 1837. E via di questo passo. In un crescendo di stravaganze e di curiosità.
Ma il loro occultamento, forse, era dovuto anche a un’altra e più sottile ragione. Alcuni di quei logori libriccini, infatti, recavano ancora impressi, a ben guardare, i timbri sbiaditi della Biblioteca Comunale e della Casa Salesiana di Marsala. Mio padre, con ogni probabilità, li aveva presi in prestito negli anni Venti o Trenta del secolo scorso, quando ancora viveva nella sua città natale, e aveva commesso il peccatuccio veniale di non restituirli. Gli opuscoli – come anche alcuni libri, a dire il vero – costituivano perciò a tutti gli effetti un seppur modestissimo “corpo del reato”. E dovevano starsene nascosti. Un po’ per la vergogna insopprimibile del furto, e un po’ perché… non si sa mai. Anche a Milano, e anche dopo le catastrofi della guerra mondiale, potevano arrivare in incognito gli ispettori delle biblioteche lilibetane!
Capitava ogni tanto, quand’io ero ragazzo, che mio padre – assalito dalle sue frequenti nostalgie – si divertisse a pescare uno dei “pezzi rari” dal fondo di quel piccolo tesoro, e me lo mostrasse con orgoglio, dispiegandone tutti i segreti. «‘Na taliàta e ‘na liggiùta», diceva, come un assetato che finalmente si potesse abbeverare a una sorgente d’acqua pura. E allora, tra le sue mani, l’opuscoletto smiciaciàto sembrava rinverdire di colpo e come illuminarsi di una strana magia. Ecco: sembrava un corpo vivo. Ricordo che una volta, sfogliandomi sotto gli occhi le pagine traforate dai tarli della Descrizione istorica del cholera asiatico, tenute ancora insieme per miracolo da due nodini di spago invisibile, con l’aria d’una burla un po’ ambigua mi disse: «Guarda, bisogna fare attenzione, perché a me sembra che i microbi del colera siano ancora vivi e attaccati a queste paginette».
Molto più spesso, invece, papà si abbandonava al puro piacere del racconto e del ricordo. Accadeva specialmente durante i pranzi, quando in casa si percepiva un umore abbastanza leggero. All’improvviso un volto antico – lui era nato nel 1903, e dunque avrebbe potuto essere benissimo mio nonno, e il padre di mia madre –, un fatto straordinario, una frase storica, balenavano nella sua mente e lo costringevano a narrare. Ogni storia aveva l’incanto dell’apologo. Ogni personaggio era un mitico eroe scomparso: «Mischinu, a ‘st’ura d’iddu ‘un ci fussiru cchiù mancu l’ossa!», era l’incipit pietoso d’ogni ritratto di quella galleria di leggende. Parole che penetravano nel mio cervello come chiodi: mancu l’ossa, nemmeno le ossa…
Così avvenne, per esempio, una sera d’inverno di almeno quarantacinque anni fa; sera che resta impressa nella mia memoria come se fosse stata ieri. Durante la cena in cucina, nel sollevare un tovagliolo, papà fece cadere a terra un cucchiaio fra schizzi di brodo. Innervosito dall’incidente, commise subito per rabbia una seconda mossa maldestra, che mise in orbita il coperchio di una pentola d’acciaio verso la credenza, donde rimbalzò sul pavimento roteandovi una miriade di volte con fragore esasperante. Estintasi l’ultima vibrazione, una tremenda bestemmia siciliana esplose tra quelle mura domestiche come il botto finale di uno spettacolo pirotecnico: «Buttana della maiorca!».
«Corrado», intervenne mia madre, «per una sciocchezza simile, esclamare certe cose davanti ai ragazzi!».
«Ho detto maiorca, non ho detto un’altra cosa». Il clima si surriscaldava.
«Della maiorca non m’importa niente, però tu hai detto anche un’altra parola, che…».
«Che… che cosa vuoi, Nives? Io non sono forse libero di dire, e magari di bestemmiare quel che mi piace in casa mia, in italiano, in siciliano e anche in turco?».
Minuti di sgomento in un silenzio assoluto. La bistecca era dura da tagliare.
«Qualcuno mi passi un coltello seghettato e anche un limone», riprese papà in tono stavolta più conciliante. Era un segnale. Ne approfittò mio fratello Alessandro, per domandargli con timida faccia da sfottò: «Ma tu, davvero sai parlare in turco?».
«Sì, certamente, lo so parlare come il marito di donna Pippina! Ve l’ho già raccontata, o no, la storia di donna Pippina? La saprete a memoria, credo. E comunque, è roba della preistoria… mezzo secolo fa, a Marsala».
«Ma raccontala lo stesso, papà», intervenni io con uno zelo che rasentava la piaggeria.
«Insomma, questa donna Pippina, mischina, a ‘st’ura d’idda ‘un ci fussiru cchiù mancu l’ossa, era una vecchia serva che lavava e scopava in casa nostra e aveva un marito ancora sano ma fannullone e vanesio, una sottospecie di quaquaraquà. Un tabbaràno vero, un làppano, uno scecco ma di quelli che si credono furbi, che ogni tanto veniva da noi con una scusa, per poi chiedere a mia madre una ‘nticchia di pecorino, una vippita di limone e una fetta di pani cu’ cimìnu, e intanto girava tra le balle di Pippina…».
«Corrado!», osò ancora mia madre.
«Le balle, sì! Le stava tra le balle, ripeto, anche per ore di fila, assecutandola come un cane di stanza in stanza. E quando lei, spazientita, lo cacciava via dandogli magari una scopata sui piedi, lui piagnucolava sdegnato: tu mi sprezzi, mi fai affruntari, giust’a mmia che sacciu parlari puru ‘n turcu! E lei replicava: va’, va’, vattinne, e quannu mai parlasti u turcu ‘n vita tua? E lui, stavolta gridando al colmo dell’offesa: e tu, sangu di Ggiuda, portam’un turcu, e tti fazz’a vvìriri com’eu cci sacciu parlari!».
Un giorno sì e uno no era una scena come questa, in quella nostra casa ai margini dell’Isola di Milano. E le antiche storie si ripetevano. Le frasi memorabili si scolpivano nei cuori. Tra quelle mura continuavano a vivere i fantasmi di una Sicilia così vera, che a momenti, affacciandoci alle finestre di quel quinto piano di via Rosellini, avremmo potuto scorgere là in fondo, oltre la barriera dei palazzoni grigi di piazzale Lagosta e di viale Zara, il boschetto mitologico di Mozia e l’arida montagna di Favignana galleggianti nella striscia blu e infinita del mare.