Spatola, ex uomo di Cosa nostra, iniziò a collaborare con la giustizia con Paolo Borsellino, quando il giudice era procuratore a Marsala. Il pentito che doveva testimoniare in aula bunker, non c’è. La notizia della morte giunge poco prima l’inizio dell’udienza, ma Spatola, si scopre dopo, è morto nel 2008. Nessuno sapeva della sua morte, nemmeno l’avvocato Silvio Forti, che avrebbe dovuto assisterlo in aula. Spatola anni fa parlò di Rostagno, della sua attività che dava fastidio ai mafiosi trapanesi. Aveva sentito parlare gli ambienti mafiosi di quel “rompiscatole”. Spatola però aveva anche sentito di fatti interni alla comunità Saman. Era di Campobello, come un altro esponente di spicco della famiglia campobellese, Totò Messina. E Spatola dalle cose che gli raccontò Messina, era certo che c’era qualcuno interno alla comunità gestita da Rostagno che pedinava il sociologo nel periodo in cui lavorava anche per Rtc. Quel qualcuno era un altro campobellese: Giuseppe Cammisa, tossicodipendente in cura a Saman.
L’udienza continua, nell’incredulità generale. I testi previsti erano due, uno era Spatola, l’altro Vincenzo Calcara. Altro ex “uomo d’onore” della famiglia di Castelvetrano e amico di Matteo Messina Denaro. Calcara inizia la sua deposizione, rispondendo alle domande del Pm Francesco Del Bene. Racconta della sua affiliazione, del momento in cui si pentì, anche lui, con Paolo Borsellino nel 1991. Qualche mese prima doveva ucciderlo, su incarico del capo di allora, don Ciccio Messina Denaro.
Calcara poi racconta di Rostagno. “L’ho sentito alla televisione. La presenza di Rostagno dava molto fastidio. Non solo a Cosa nostra ma anche a ciò che va oltre Cosa nostra, a collegamenti e personaggi fuori Cosa nostra. Ho capito subito che doveva morire perché stava facendo molti danni. Il primo danno consisteva nel fatto che lui ogni giorno era in tv a parlare contro uomini di Cosa nostra, era un detective, scopriva delle cose che facevano molto male. Accusava persone, indicava le ingiustizie. Apertamente era contro Cosa nostra ed era imperdonabile. Andava molto sul profondo. Era pericoloso, in poche parole si doveva uccidere”. Il giorno del delitto Calcara era detenuto Favignana, in cella con Lazzarino e Luppino. “Quando lo hanno ammazzato, in carcere Luppino e Lazzarino furono contenti della sua morte, ce lo siamo levati davanti alle scatole. Questo è molto pericoloso, diceva sempre Luppino e si chiedeva dove voleva andare. Pericoloso per ciò che indagava, per ciò che faceva, per ciò che diceva…”
Calcara poi precisa a chi si riferiva quando diceva che Mauro Rostagno dava fastidio a personaggi collegati a Cosa nostra: “alla massoneria e a uomini delle istituzioni che erano deviati in collegamento con Cosa nostra”. Non fa nomi però, non ricorda. Nemmeno di Licio Gelli. Ricorda solo il nome del maresciallo dei Carabinieri Giorgio Donato. E dice che i politici mazaresi e trapanesi erano molto infastiditi da Rostagno.
La palla poi passa agli avvocati della difesa. chiedono dell’attentato al Papa. Già perché Calcara sa qualcosa anche dell’attentato a Giovanni Paolo II. “Ho detto tutto in una sentenza precedente. C’erano interessi che vanno oltre Cosa nostra e ogni volta che ho parlato di queste cose ho avuto problemi”. Poi sbotta: “ma questo è il processo per l’attentato al Papa o per il delitto Rostagno?...Ho ricordato che Ali Agca era stato a Palermo, addestrato da uomini di Cosa nostra. Non lo ricordo se ho detto che Totò Riina era il mandante”.
Calcara si è definito soldato riservato di Cosa nostra. Su Rostagno racconta poche cose. Impressioni, voci, sospetti. Calcara è stato condannato per un omicidio del quale dice di essere innocente, ma ne confessa un altro. “Sono stato condannato per il delitto Tilotta, ma io per quell’omicidio mi sono dichiarato innocente-ho commesso un altro omicidio…ma non ne desidero parlare.”
Calcara finisce la deposizione. Il processo riprenderà il 25 gennaio. Saranno sentiti i testi Marino Mannoia e Francesco Di Carlo.