Ancora una volta ci imbattiamo in Gesù che parla in parabole: quella che abbiamo ascoltata quest’oggi è particolarmente dura e non risparmia all’uditorio scene di violenza. Vi compare, come in altre parabole, un padrone di casa, metafora che Gesù ha scelto spesso per mettere sulla scena Dio: si tratta di una figura premurosa, piena di attenzioni. Prima di consegnare la vigna che egli stesso ha piantato a dei vignaioli, perché se ne prendano cura in sua assenza, il padrone di casa la cinge con una siepe, per ripararla dal vento. In seguito vi scava un torchio, perché poi vi si possa pigiare l’uva: segno del fatto che, sin dal momento in cui pianta la vigna, il padrone si aspetta dai vignaioli che gli restituiscano il frutto che la vite darà a suo tempo. Infine, edifica una torre, perché chi intenda eventualmente saccheggiare la vigna desista dai suoi propositi.
Giunge dunque il tempo della vendemmia ed il padrone manda i propri servitori più fidati a riscuotere la parte del raccolto che gli spetta. Ma, nel frattempo, gli affittuari sembrano essersi convinti di potersi comportare da padroni della vigna e si permettono di malmenare e persino di uccidere gli inviati del vero padrone. Quest’ultimo, di conseguenza, manda una rappresentanza più numerosa, alla quale, però, viene riservata dai mezzadri la stessa sorte. Al che, in maniera che non può che sembrarci avventata, il padrone della vigna manda il proprio figlio a riscuotere il frutto: come era prevedibile, però, quei vignaioli che non si erano fatti troppi scrupoli ad eliminare schiere di servitori, si risolvono ad assassinare anche quest’ultimo, speciale inviato. Il ragionamento che essi compiono è in linea con l’atteggiamento assunto sin dall’inizio: se uccidiamo il figlio del padrone, l’eredità della vigna sarà nostra.
Fin qui il racconto. Ma per comprendere una parabola, ogni parabola, è necessario comprendere chi si cela dietro ciascuna delle figure che compaiono sulla scena. Del padrone della vigna, del resto facilmente riconoscibile, abbiamo già detto. Nei servitori da lui inviati, sovente, gli interpreti hanno comprensibilmente visto l’immagine dei profeti che, secondo le Scritture, Dio ha suscitato in mezzo al suo popolo, Israele.
I problemi maggiori sorgono con la figura del figlio e con quella, estremamente controversa e per ciò stesso delicatissima da maneggiare, dei vignaioli. Partiamo dal figlio. Normalmente questi viene identificato con Gesù: cosa del tutto plausibile, ma che necessita di alcuni chiarimenti. Anzitutto, Gesù è anche colui che racconta la parabola: se è vero che, parlando del figlio, egli sta parlando di sé a chi lo ascolta, ciò sta a significare che lo stesso Gesù sarebbe stato consapevole del rapporto di figliolanza che lo univa in maniera estremamente intima, viscerale, a Dio. Vi sono elementi forti a sostegno di questa ipotesi: citerò, a titolo esemplificativo, i due che mi paiono essere i più significativi. Il primo elemento consiste nel fatto che in tutti i vangeli cosiddetti «canonici», Gesù si rivolge a Dio chiamandolo «Padre»; il secondo è rappresentato dal fatto che tutti e tre i vangeli cosiddetti «sinottici» riportano questa parabola, segno inequivocabile del fatto che essa non rappresenta l’elaborazione di uno degli evangelisti ma che, al contrario, può essere fatta risalire con buone probabilità allo spirito poetico e narrativo proprio di Gesù. Ora, chiarito questo aspetto, è bene non dimenticare che questa figliolanza non va intesa nel senso che la dogmatica ecclesiale ha sviluppato soltanto in seguito.
Figlio di Dio, nella tradizione ebraica di cui Gesù è figlio ed interprete, è soltanto un modo, tra i più pregnanti, senza dubbio, per esprimere la cosiddetta «dignità messianica» di Gesù, ovverosia il fatto che Dio, attraverso di lui, si fa vicino al suo popolo, specialmente alla sua componente emarginata, promettendo liberazione. Non è escluso, ma è comunque discusso tra gli interpreti, che nell’ultima fase della sua attività pubblica Gesù si sia convinto di incarnare questa figura.
Il problema più serio, però, riguarda l’identificazione dei vignaioli. Una lunga, nefasta tradizione ecclesiastica, ha associato questa figura al popolo d’Israele, accusato, tutto insieme, senza distinzioni, di aver prima rifiutato e poi messo a morte tanto i profeti quanto il messia. Le conseguenze di questa menzogne e di questa ignoranza sono state immani, catastrofiche, ed hanno condotto l’Europa «cristiana» a costruire quel pregiudizio antisemita che perdura sino ad oggi e che trova ancora espressione nelle esternazioni inqualificabili di movimenti oltranzisti come quello dei
lefebvriani, con cui l’attuale pontefice ha tentato a più riprese una sospetta quanto vergognosa riconciliazione. Questo pregiudizio ottuso e del tutto infondato è lo stesso che ha creato in Europa le condizioni per quello sterminio di massa del popolo ebraico che alcuni fino ad oggi si ostinano a negare, ma sul quale ha gettato una luce spettrale ed inconfutabile una giornata come quella di oggi, il 27 gennaio del 1945. Probabilmente sono un illuso, ma continuo a credere che una delle strategie più efficaci per estirpare il pregiudizio così come l’ignoranza che lo genera consiste nell’illustrare l’infondatezza, l’insostenibilità delle sue premesse.
Una di esse, la più antica, è rappresentata proprio da questa accusa infamante che un’ampia fetta del cristianesimo, capeggiata da molti di coloro che poi assurgeranno al prestigioso ruolo di «padri della chiesa», ha formulato sin dal II secolo nei confronti del popolo ebraico, sostenendo che ad esso vada attribuita la responsabilità del rifiuto e della messa a morte di Gesù. Entrambe le affermazioni rappresentano una colossale menzogna, di una diffamazione che non ha fondamento. Vediamone le ragioni a partire dal nostro testo. Anzitutto, come ormai sappiamo, dobbiamo collocare la parabola che Gesù racconta nel suo contesto: senza questa operazione, difatti, ogni interpretazione del racconto non può che rivelarsi limitata e pretestuosa. Secondo tutti e tre i vangeli sinottici Gesù racconta questa parabola in un luogo ben preciso, rivolgendosi ad interlocutori appositamente scelti: egli si trova difatti all’interno del tempio di Gerusalemme e sta parlando alle autorità di questo luogo sacro. Anche circa l’individuazione esatta di queste ultime, i testi evangelici rivelano la loro parziale inattendibilità storica: Matteo, difatti, a differenza di Marco, in questo più preciso e credibile, allunga la lista. Accanto ai sommi sacerdoti ed agli anziani del popolo, difatti, Matteo colloca i farisei. La ricerca storica ed esegetica, però, ha ormai raccolto dati sufficienti a dimostrare che questi ultimi non presero parte alcuna all’accusa, al processo e alla condanna di Gesù: Marco, difatti, il più antico dei vangeli, non li nomina. Matteo, al contrario, sembra riportare al tempo di Gesù quello che sarà invece un conflitto successivo, quello nel quale, probabilmente, la comunità nella quale e per la quale egli scrive si ritroverà coinvolta.
Il movimento farisaico, infatti, era l’unico altro movimento interno all’ebraismo che, insieme al cristianesimo, era sopravvissuto alla distruzione del tempio ad opera dei Romani: questo fatto comportò l’accendersi di una rivalità sempre più profonda tra i due movimenti, i quali si consideravano entrambi legittimi eredi della tradizione ebraica.
Diverso, invece, il caso dei sommi sacerdoti e degli anziani: costoro, in qualità di guardiani dell’ortodossia giudaica, giudicarono irriverente e sovversivo l’atteggiamento di questo maestro proveniente dalle tumultuose campagne della Galilea. Furono loro, pertanto, come classe politica che faceva della religione lo scudo per mascherare interessi e mantenere privilegi, a portare Gesù davanti al procuratore romano con l’accusa di sedizione e a richiederne la condanna. Il popolo ebraico in quanto tale non svolse alcun ruolo in questa vicenda: la natura dell’accusa e la motivazione della condanna furono, come tutto il conflitto che oppose Gesù alla classe sacerdotale di Gerusalemme, di natura politico-religiosa. A tal punto il popolo è innocente che, all’interno stesso della città in cui Gesù incontrerà la morte, le autorità religiose si astengono dall’arrestarlo in pubblico per farlo poi di notte, fuori dalle mura, perché, dice il nostro testo, «le folle», dunque una grande maggioranza, «lo consideravano un profeta».
E delle folle, da che mondo è mondo, i potenti cercano il favore e temono la sollevazione. Dunque la prudenza, o meglio, come la definisce il testo, la paura e l’opportunismo, sconsigliano ai sacerdoti un’azione immediata e alla luce del sole: occorreranno l’inganno e le tenebre per muoversi da politicanti navigati. È a loro, simbolo di un potere dogmatico e oppressivo, che Gesù racconta la parabola che abbiamo ascoltata.
Il finale è uno schiaffo in pieno volto: Dio toglierà a questi irreprensibili censori il Regno e lo affiderà ad altri. Anche qui c’è stato, e non sono stati pochi, chi ha letto quest’affermazione nel senso che Dio avrebbe revocato le promesse fatte ad Israele per farle ricadere su un altro soggetto: la chiesa, naturalmente, il «popolo del nuovo patto». Questa aberrazione, non ancora debellata in seno al fondamentalismo cristiano, prende il nome di «sostituzionismo»: Israele, secondo questa pseudo-teologia, verrebbe scalzato dalla chiesa nel suo ruolo di erede della promessa di un Regno di pace e di giustizia. E chi sarà a scalzarlo? Dio, naturalmente, che nella funesta tradizione antigiudaica che ha dominato incontrastata per secoli in tutta la cristianità, diventa il nemico giurato del popolo ebraico. Non solamente la chiesa cattolica, che ha abolito soltanto sotto il pontificato di Giovanni XXIII l’espressione «perfidi giudei» dalla messa domenicale, ma anche i tanto celebrati padri della Riforma classica, da Lutero a Calvino, hanno pronunciato una sequela ininterrotta di nefandezze sul popolo ebraico, che hanno contribuito come nessun altro elemento storico e culturale ad alimentare e radicare quel pregiudizio che condusse all’orrore della «soluzione finale». Di fronte all’eccidio di innocenti che la società cosiddetta
cristianizzata ha prodotto non vi sono richieste di perdono accettabili. Per quel che mi riguarda credo soltanto al lavoro lento, profondo, critico, di quell’educazione ad una fede più umana e meno rigidamente dogmatica che passa attraverso la conoscenza della storia e rinuncia alle sue assurde pretese di assolutismo, che non generano altro se non violenza: questo, credo, è il compito che, come chiese cristiane, dobbiamo assolvere perché il nostro chiedere perdono suoni credibile.
Domenica 27 Gennaio 2013 – Giornata della Memoria –
Pastore
Alessandro Esposito