Il diciannovenne Agostino Badalamenti, unico killer siciliano catturato con la pistola fumante in pugno, sfruttò il suo volto da ragazzino: cominciò a piangere, pestando i piedi e urlando: «Voglio la mamma». Giovanni Battaglia, il basista della strage di Capaci, ha passato mesi accogliendo i magistrati con sputi, bestemmie e lunghe cantilene di frasi insensate. Invece il capoclan siracusano Angelo Bottaro si è dichiarato «unto del Signore», benedicendo la corte con fare ieratico e distribuendo santini ai carabinieri. Gesti e parole che gli hanno garantito il trasferimento in manicomio, grazie a schiere di medici collusi, e un rapido ritorno in libertà.
Per decenni la pazzia è stata la scorciatoia usata dai picciotti per sfuggire al carcere: ci hanno provato in tanti, mettendo in scena nei tribunali un incredibile elogio della follia, proseguito dagli anni Settanta ai giorni nostri. La storia dei matti d'onore è stata finalmente ricostruita in un saggio, "Mafia da legare", scritto dallo psichiatra Corrado De Rosa e dalla giornalista Laura Galesi. Un testo agile e intelligente, che ricostruisce il rapporto tra Cosa nostra e la malattia mentale, vera o falsa. Perché ci sono anche biografie criminali in cui la brutalità è specchio di turbe profonde. Come quella di Filippo Marchese detto "Milinciana" ossia Melanzana: «Un sadico, uno che strangolava e tagliava corpi. Che non permetteva a nessuno di uscire vivo dalla sua camera della morte e provava un piacere erotico a uccidere mentre tirava cocaina». O come quella di Nino Santapaola, fratello del più noto Nitto, descritto dal pentito Antonino Calderone con queste parole: «Ogni sabato sera usciva di casa e se ne andava a caccia. Si divertiva cercando gente da massacrare... Se si va a vedere la cronologia dei delitti avvenuti a Catania verso il '76-77, si può verificare quanti sono avvenuti di sabato. La domenica mattina aprivamo il giornale e commentavamo: "Il pazzo ieri ha lavorato"». Il fratello Nitto lo chiamava "u licantropo": «Era talmente sanguinario che quando fece uccidere quattro bambini che avevano scippato sua madre, persino i corleonesi dissero: "Esagerato!"».
Da trent'anni Nino Santapaola entra e esce dai manicomi giudiziari. Nei periodi di libertà spesso ha guidato gli affari di famiglia: una volta è stato fermato con l'auto carica di armi, nel 2000 gli hanno sequestrato la contabilità del racket e si ritiene che abbia curato l'investitura del nipote al vertice del clan. Negli incontri con gli psichiatri però «mette insieme omeopatia, campi di fragole e idrocarburi, dice che non si ossigena abbastanza e per questo deve uscire dal carcere. Le voci lo perseguitano: "Come una rete che si mette davanti e che mi fa litigare nel cervello". Anche se delle voci, come scrivono i periti, non c'è traccia nei colloqui». Tra un ricovero e l'altro, ha subìto una sola sentenza definitiva per omicidio. Oggi, dopo un infarto, un ictus, anni di diabete, le sue condizioni di salute sono diventate realmente gravi. Nel dicembre 2011 la Corte di appello di Catania le ha definite incompatibili con il carcere e sospeso i processi contro di lui: presto forse tornerà a casa.
In Cosa nostra però anche la pazzia ha un rango. Nessun vero capo sarebbe mai ricorso a questi trucchi per sottrarsi alla detenzione. È una delle differenze con la camorra napoletana che ha infilato nelle cliniche psichiatriche anche pezzi da novanta, come Raffaele Cutolo, o come in tempi recenti hanno tentato di fare boss scissionisti e casalesi. Per i mammasantissima siciliani invece mostrarsi folli significava perdere i requisiti del comando. Anzi, l'insanità mentale è sempre stata uno strumento per delegittimare rivali, pentiti e persino magistrati. In un'intervista a Enzo Biagi, il primo padrino corleonese Luciano Liggio parlò di Cesare Terranova, assassinato a Palermo: «Non so se il giudice Terranova, poveraccio, si sentisse odiato. Provavo per lui sincera commiserazione. Quando ebbi quel piccolo attrito durante l'interrogatorio, mi sono reso conto che mi trovavo di fronte un ammalato. Se dietro a varie scrivanie dello Stato ci sono degli psicopatici, la colpa non è mia. Perché non fanno delle visite adeguate a questa gente prima di affidare loro un ufficio?».
Ma Cosa nostra impugna la follia anche come strumento di condanna. La sentenza contro Giuseppe "Scarpuzzedda" Greco, che si ritiene abbia ucciso 58 persone strangolandole o abbattendole a colpi di Kalashnikov, sarebbe stata presentata così da Totò Riina a Salvatore Cancemi: «Lo sai che abbiamo trovato la medicina per i pazzi? Abbiamo ammazzato Scarpuzzedda, era diventato pazzo...».
Spesso Riina l'ha evocata nel faccia a faccia con i pentiti che lo accusano. A Gaspare Mutolo ha urlato: «Con lui non si può parlare perché è pazzo come sua madre». E in effetti Mutolo era riuscito a passare dalla cella all'ospedale psichiatrico, dove ottenne «un trattamento di favore». Uno dei tanti che hanno potuto servirsi della complicità di medici prezzolati, ricattati o inseriti a pieno titolo nel gotha mafioso. Ci sono storie di camici sporchi in tutta Italia. Come i luminari romagnoli che hanno sancito l'infermità di un picciotto, filmato poi mentre si alzava dalla sedia a rotelle e ballava la macarena in compagnia di giovani fanciulle. Dopo essere stato smascherato, si è suicidato: secondo il medico legale voleva solo fingere «un'impiccagione atipica che avrebbe potuto consentirgli di sostenere che versava in condizioni di disagio psicologico». La simulazione è finita in modo tragico. Forse non è l'unico caso che ha avuto esiti drammatici, con l'inganno tramutato in realtà.
In questi giorni la vicenda più discussa riguarda Bernardo Provenzano, l'ultimo regista della mafia. Sin dal momento dell'arresto, Provenzano ha offerto ai fotografi un sorriso sottile, quasi un ghigno. Fino al febbraio 2011 ha sostenuto che la sua malattia non gli permettesse di restare in carcere. I medici però lo hanno escluso, trasferendolo in un penitenziario con un centro clinico. A quel punto i suoi avvocati hanno cambiato linea, sottolineando lo stato psichico sempre più confuso: «Provenzano non è in grado di comprendere, non può partecipare ai processi». Il padrino infatti scrive lettere e telegrammi sconclusionati ai familiari. Ma i periti, pur nella criticità delle condizioni fisiche, non hanno riscontrato tracce di demenza.
Per De Rosa e Galesi l'iniziativa medico-legale non è stata isolata. Altre figure di primo piano nelle stesse settimane hanno invocato e ottenuto di lasciare la prigione, come Michele Aiello e Gaetano Fidanzato. Gli autori del libro lo definiscono «un momento di mobilitazione generale». È allora che Provenzano viene trovato dalle guardie con un sacchetto di plastica sulla testa. Appena gli agenti aprono la porta, lui stesso consegna la busta. I soccorritori scrivono «rispondeva in maniera sconnessa, ma con modi e sorriso maliziosi». Il medico che lo visita ipotizza che sia stata «una messinscena». Il gesto dello scorso 9 maggio resta misterioso: è stato un attimo di sconforto di un ottantenne senza futuro o una lucida forma di protesta? Venti giorni dopo i pm di Palermo gli chiedono della trattativa tra Stato e mafia. La replica è concisa: «Per dire io la verità avissimi a parrari male di cristiani, scusatemi».
Il 17 dicembre Provenzano è caduto in cella e lo hanno operato d'urgenza per un'ematoma cerebrale. Dopo un lungo coma farmacologico ora mostra segni minimi di ripresa, con un quadro in costante peggioramento. Adesso è incompatibile con i processi: a decretarlo sono proprio i periti del procedimento sui patti tra Cosa nostra e istituzioni, il primo dove sarebbe dovuto comparire come imputato.
di Gianluca Di Feo, da L'Espresso, 1 febbraio 2013