Per questa vicenda Bersani non lo aveva ricandidato al Senato, lo scorso Febbraio, ed era stato escluso all'ultimo minuto, tra le polemiche, dalle liste per le elezioni nazionali.
La sezione giurisdizionale d’appello della Corte dei conti lo ha condannato, per fatti che risalgono a quando ricopriva la carica di assessore regionale al Lavoro, «a risarcire alla Regione siciliana 16mila euro per il danno all’immagine provocato nel 2005 dall’inchiesta su voto di scambio e racket dei posti di lavoro». Di fatto è
stata confermata la sentenza di primo grado. «Le prove acquisite al giudizio, sia autonomamente da parte del procuratore agente, ma soprattutto durante l’iter processuale svoltosi in sede penale — scrivono i giudici — , non lasciano adito a dubbi circa la responsabilità dell’appellante nella gestione truffaldina dei posti di lavoro da assegnare ai cantieri di lavoro denominati Emergenza Palermo». Per la stessa vicenda, in sede penale Papania ha patteggiato una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio.
La vicenda che ha portato Papania prima al patteggiamento e adesso alla condanna della Corte dei conti per danno all’immagine della Regione è costata all’esponente Pd anche la ricandidatura al Senato nella lista del Partito democratico. L’ex segretario nazionale, Pier Luigi Bersani, poco prima della presentazione
ufficiale della liste, ha escluso il senatore dalla lista proprio per il precedente che riguardava il patteggiamento per abuso d’ufficio.
Per la commissione nazionale di garanzia del Pd, presieduta da Luigi Berlinguer, «in base a un criterio di opportunità» sarebbe stato meglio non candidare Papania, e in questa direzione ha preso poi la decisione definitiva lo stesso Bersani.
Insieme a Papania, escluso dalle liste è stato anche Vladimiro Crisafulli.
Entrambi hanno protestato, ma Bersani è stato irremovibile.
Il senatore Papania si è sempre difeso: «Il tribunale di Palermo ha dichiarato che il reato è estinto e quindi sono completamente riabilitato », ha sempre ribadito l’ex parlamentare, ammettendo che il patteggiamento a due mesi e venti giorni costituisce «un errore»: «All’epoca avevo 38 anni e pensavo che dopo il patteggiamento non se ne sarebbe parlato più. Così mi consigliò l’avvocato, ma non lo rifarei e andrei direttamente a giudizio».