E' un fiume in piena, al processo sulla trattativa Stato-mafia che si sta svolgendo davanti alla Corte di Assise di Palermo, il pentito Francesco Onorato, uno dei killer dell'eurodeputato Salvo Lima. «Ma quale trattativa - esordisce, rispondendo, in videoconferrenza, alle domande dei pm Nino Di Matteo e Francesco Del Bene - tra Stato e mafia? Sono stato vent'anni in Cosa nostra ed è sempre stato risaputo che c'era una convivenza tra politici e Cosa nostra... Perché Riina dice sempre "Lo Stato, lo Stato"? Perché è l'unico che sta pagando il conto, mentre lo Stato non sta pagando niente. Per questo motivo Riina accusa sempre lo Stato, non perché se lo inventa. Ha ragione ad accusare lo Stato, da Violante agli altri. È lo Stato che manovra, ha ragione Riina».
«Prima - continua Onorato - i politici hanno fatto fare le cose a Riina e poi lo hanno mollato. Ecco perché è arrabbiato con lo Stato. Ci hanno fatto ammazzare Dalla Chiesa. L'avevano voluto Craxi e Andreotti, mica la mafia. Poi quando l'opinione pubblica scese in piazza i politici si nascosero. Per questo Riina li voleva uccidere tutti. Potrei dire tante altre cose sui politici, ma non le dico perché temo le conseguenze». Perché - domanda un avvocato - non ha raccontato tutto questo prima, visto che collabora da 16 anni? «Nel dire certe cose - risponde Onorato - si rischia di restare soli. Come sono io adesso. Solo e abbandonato dallo Stato».
Gli ex ministri Calogero Mannino e Carlo Vizzini - spiega il pentito - «dovevano essere uccisi da Cosa nostra. C'era una specie di lista: si dovevano uccidere i cugini Nino e Ignazio Salvo, Andreotti, Martelli, Craxi. Salvo Lima era il primo della lista. Dopo l'esito del maxiprocesso Cosa nostra contattò una serie di politici, tra cui Lima, che però non si presentò all'appuntamento, diede buca... Nella lista c'erano pure Serafino Ferruzzi e Raul Gardini. Martelli lo abbiamo fatto diventare ministro noi, abbiamo anche investito 200 milioni di vecchie lire. Cosa nostra voleva farlo diventare nel 1988 ministro di Grazia e Giustizia, perché si diceva che piano piano avrebbe fatto uscire i mafiosi dal carcere e che nessuno doveva stare molto in carcere».
Per l'agguato mortale di Lima, ucciso a Mondello il 12 marzo 1992, «ho organizzato tutta la fase esecutiva. Aspettavamo il segnale del telefono per avvicinarci al momento dell'uscita di casa di Lima. La motocicletta era rubata. Noi eravamo armati. Indossavamo giubbotti antiproiettili. Appena lo abbiamo visto ci siamo avvicinati alla sua auto. Lima era con altri due. D'Angelo, che era con me, era emozionato e li ha sorpassati troppo. Così mi sono girato e gli ho sparato dei colpi di pistola per bloccarli. Sono sceso dalla moto, ho inseguito Lima a piedi e gli ho sparato. Riina ci disse di ammazzarli a tutti, se non era solo. Ho cambiato pistola, mi era rimasto solo un colpo in canna. Così ho preso un'altra pistola per uccidere anche gli altri due politici (Nando Liggio e Alfredo Li Vecchi, rimasti illesi ndr), ma non me la sono sentita. Li ho graziati. Poi Riina e Biondino mi hanno rimproverato per questo. Tutto è finito lì. Tanto non erano i bersagli, l'importante era uccidere Lima».
Altri omicidi eccellenti furono commissionati a Cosa nostra e a Totò Riina. Compreso quello del presidente della Regione Piersanti Mattarella. «Ma per quello che so - precisa Onorato - Mattarella è stato pressato da altri politici». Cosa nostra voleva eliminare anche Andreotti. «Salvatore Biondino - prosegue il pentito - mi disse che per quanto riguardava il progetto di uccidere Giulio Andreotti e il figlio, se ne stavano interessando i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano a Roma. C'era peraltro qualche problema, perché gli venne rinforzata la scorta proprio in quel periodo. Ma l'omicidio si sarebbe dovuto fare in ogni caso».
Quanto al fallito attentato del 21 giugno 1989, «la misi io quella bomba - dice ancora Onorato - e quando abbiamo fatto l'attentato all'Addaura, abbiamo messo in giro la voce che la bomba se l'era messa Giovanni Falcone da solo, per farlo passare per un bugiardo, una persona di poco conto. E Salvatore Biondino, luogotenente di Riina e ambasciatore della Commissione di Cosa nostra, mi disse che questa era una pressione fatta dai politici. Si doveva svergognare Falcone che si metteva le bombe, in modo da farlo diventare debole. Riina prima era contento di avere tutte queste amicizie: dai Salvo ai Gioia, agli altri i politici. Poi aveva trovato altri canali».
«Biondino - conferma conferma Giovan Battista Ferrante, il secondo pentito ascoltato ieri in videoconferenza - aveva detto a Onorato che dovevano uccidere Lima perché si dovevano "pulire i piedi". All'agguato partecipammo io, Salvatore Biondo, Simone Scalici, Francesco Onorato e Giovanni D'Angelo. A dirci l'ubicazione della casa di Lima e il tipo di auto che il politico aveva, era stato Salvatore Biondino. Onorato stava dietro sulla moto e D'Angelo davanti. Io ho avvisato D'Angelo. Biondo e Scalici dovevano prendere Onorato e D'Angelo dopo l'omicidio. E Ferrante dava il segnale. Mi sono posizionato sopra Monte Pellegrino, da lì potevo vedere l'auto quando arrivava e andava».
Pochi giorni prima della strage di via D'Amelio in cui furono uccisi, il 19 luglio 1992 il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, i boss di Cosa nostra fecero delle prove dell'attentato. «Partecipai alle fasi organizzative delle stragi di Capaci e via D'Amelio - spiega Ferrante - e facemmo le simulazioni per la strage di via D'Amelio, in località Case Ferreri, nella zona di viale Regione Siciliana, non so se 10 o 15 giorni prima del 19 luglio. Erano prove di "funzionamento". Ho saputo che la vittima designata per via D'Amelio era il giudice Borsellino solo pochi giorni prima, forse una settimana prima». Per quanto riguarda il numero telefonico «mi venne dato da Giuseppe Graviano in presenza di Salvatore Biondino e io avrei dovuto telefonare a quel numero lì. Mi trovavo esattamente al ponte di via Belgio e ho telefonato al numero che mi diede Giuseppe Graviano appena vidi la macchina del dottor Borsellino».
Conclusa la deposizione di Giovan Battista Ferrante il processo è stato rinviato al prossimo 21 novembre dal presidente della Corte di Assise Alfredo Montalto. In videoconferenza sarà ascoltato il pentito Antonino Giuffrè, l'ex capomafia di Caccamo che deporrà anche l'indomani.