«Nel 1991, c'era interesse a contattare Dell'Utri e Berlusconi perché attraverso loro si doveva arrivare a Bettino Craxi, che ancora non era stato colpito da Mani Pulite, perché influisse sull'esito del maxiprocesso». Giovanni Brusca - al secondo giorno del suo interrogatorio nell'aula bunker di Milano - apre il capitolo dei contatti avviati da Cosa nostra con il Cavaliere al processo sulla trattativa Stato-mafia in cui è al contempo teste dell'accusa e imputato. Con lui, alla sbarra, ci sono i boss Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Nino Cinà, gli ex ufficiali dell'Arma Antonio Subranni, Mario Mori e Giusepep De Donno, l'ex senatore del Pdl Marcello Dell'Utri; l'ex ministro Nicola Mancino e Massimo Ciancimino.
Rapporti - quelli di Cosa nostra e il Cavaliere - con alti e bassi, sostiene Brusca, rispondendo alle domande - assente il sostituto Nino Di Matteo - dei pm Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Come nel caso dell'attentato «nell'86 o nell'87 ad una villa di Berlusconi per indurlo a continuare a pagare il "pizzo" di 600 milioni di lire l'anno che aveva interrotto dopo l'uccisione di Stefano Bontate». La bomba la piazzò Ignazio Pullarà, che però non era stato autorizzato da Cosa nostra.
Quanto al defunto Vittorio Mangano, "lo stalliere di Arcore", assunto nel ‘73 come factotum nella villa di San Martino e licenziato tre anni dopo, accusato di volere organizzare il sequestro di un principe ospite del Cavaliere, «nel'93, d'accordo con Leoluca Bagarella - continua Brusca - lo incaricammo di andare da Berlusconi e Dell'Utri per affrontare intanto il problema del carcere duro, che andava indebolito, e poi di avviare contatti per fare leggi nell'interesse di Cosa nostra, altrimenti avremmo proseguito con la linea stragista. Mangano fu contento di andarci e ci disse che era un modo per riprendere i rapporti con loro, che erano rimasti buoni nonostante lui avesse dovuto lasciare la villa, e per curare gli interessi di Cosa nostra. Il nostro messaggio era diretto a Berlusconi ma Mangano incontrò solo Dell'Utri. Dopo 10 giorni ci disse che lo aveva incontrato nell'agenzia di pulizie di una persona che lavorava per la Fininvest. Ci riferì che Dell'Utri era contento e soddisfatto sul piano personale e che gli aveva detto che "avrebbe visto quel che si poteva fare". Dissi allora a Mangano di riferire a Dell'Utri che dei fatti del ‘93 la sinistra sapeva e che poteva usare questa cosa visto che ora incolpavano lui delle stragi».
Erano gli anni in cui Cosa nostra cercava «di agganciare un nuovo canale politico e il punto finale era Silvio Berlusconi. Dopo avere ripreso i rapporti con Dell'Utri, Mangano mi disse che Silvio Berlusconi era atteso a Palermo per un comizio e sperava di parlargli direttamente nello scantinato di un ristorante sulla circonvallazione, ma non so se l'incontro ci fu. Credo che fosse in occasione delle politiche del ‘94».
«Dovevamo costruire un altro progetto politico perché non avevamo più Andreotti e dovevamo indebolire la sinistra. Un modo per indebolirla era colpire chi la sosteneva, cioè Carlo De Benedetti», ha aggiunto Brusca.
La "trattativa", secondo la Procura, era stata avviata da due anni e il "papello" con le richieste di Cosa nostra già consegnato. «La sinistra, a cominciare da Mancino, ma tutto il governo, in quel momento storico, sapeva - dice Brusca - quello che era avvenuto in Sicilia: gli attentati del ‘93, il contatto con Riina. Sapevano tutto. Che la sinistra sapeva lo dissi a Vittorio Mangano quando lo incontrai. Gli dissi anche: "i servizi segreti sanno tutto, ma non c'entrano niente". Mangano comprese e con questo bagaglio di conoscenze andò da Dell'Utri». In questo contesto, si inserisce il fallito attentato ai carabinieri allo stadio Olimpico della Capitale, il 31 ottobre 1993. «Dopo le bombe di Roma, Milano e Firenze quello, come mi confermarono prima Gaspare Spatuzza e poi Matteo Messina Denaro, doveva essere - spiega il boss pentito - l'ultimo colpo per spingere chi aveva ricevuto il papello a tornare a sedersi al tavolo della trattativa».