«A volte mi chiedo se è giusto andare avanti, per me e per la mia famiglia. Razionalmente penso che non ne valga la pena, ma poi un impasto di sentimenti si fa largo e mi trascina a una sola risposta: ne vale la pena, è giusto così».
Lo dice in un colloquio con Repubblica il pubblico ministero di Palermo Nino Di Matteo, minacciato di morte da Totò Riina e da lettere anonime con lo stemma della "Repubblica italiana". «Diciamo - osserva - che è una coincidenza: l'ordine di morte partito da Riina e tutti quegli anonimi sono arrivati in sincronia quando, anche dopo il rinvio a giudizio degli imputati, con i miei colleghi abbiamo deciso di non fermarci con l'inchiesta».
«Sapevo - aggiunge - a cosa andavo incontro quando ho cominciato a fare il magistrato, il lavoro che volevo fare: il pm, non il giudice. A Palermo avevano già ucciso molti colleghi, c'era già stato Capaci, via D'Amelio, ma non credevo che si potessero ripresentare momenti così».
In ogni caso non è tutto come il '92, come con Borsellino, perchè «c'è una differenza importante: allora c'era solo il silenzio intorno a Paolo, oggi ci sono tantissimi italiani che stanno dalla nostra parte, semmai stridono certi silenzi istituzionali se confrontati alla solidarietà dei cittadini, delle persone senza nome che mi scrivono».