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25/12/2013 06:08:00

Mafia, troppa retorica e poca legalità

 Credo che sia stato uno sbaglio da parte della stampa e dell’opinione pubblica non avere prestato la necessaria attenzione ai casi di Carolina Girasole e di Rosy Canale: famose entrambe per la loro attività contro la criminalità organizzata in Calabria ma nei giorni scorsi indagate in due inchieste della magistratura. La prima, infatti, come sindaco di Isola Capo Rizzuto fingeva a gran voce di combattere la ‘ndrangheta ma secondo l’accusa in realtà era stata eletta con i voti prestatile dal clan ‘ndranghetista Arena, che ha poi favorito consentendo che i malavitosi continuassero a utilizzare indisturbati i terreni agricoli confiscati loro. La seconda, Rosy Canale - fondatrice del movimento «Donne di San Luca», promotrice instancabile di iniziative a pro della legalità, scrittrice, attrice, collezionatrice di premi, comunemente descritta come «un’icona della lotta alla criminalità organizzata» - aveva per questo percepito cospicui finanziamenti dalle più impensabili fonti, che però - come è stato rivelato dalle intercettazioni telefoniche - ha impiegato regolarmente per uso personale: riempiendo armadi di borsette e vestiti, acquistando per se stessa e i suoi cari automobili, vasche da idromassaggi e spassi vari.

Pur nella loro ovvia patologia queste vicende non nascono però dal nulla. Esse sono rivelatrici di quel modo sterile e illusorio di fronteggiare la malavita e di gestirne ideologicamente il contrasto sociale, che da noi imperversa ormai da anni sotto il nome di «cultura della legalità». La quale, al dunque, si sostanzia in niente altro che in convegni e in tavole rotonde, in oceani di chiacchiere di Autorità varie giunte con voli di Stato su Punta Raisi per viaggi lampo in giornata, in compunte cronache dei tg regionali e in scolaresche precettate d’imperio ad ascoltare gli sproloqui di sindaci e assessori, ovvero ospitate in costose carnevalate come la «Nave della Legalità» organizzata dal ministero dell’Istruzione sulla rotta Napoli-Palermo. Tutte cose destinate a furoreggiare perché mettono insieme due tratti qui da noi sempre in auge. Da un lato la precettistica buonista - di nessun effetto pratico, naturalmente, ma che permette a chiunque di esibire il proprio impegno politicamente corretto (vedi i soldi che sulla suddetta abilissima Canale piovevano dalla Fondazione «Enel cuore», dal ministero della Gioventù, dal Consiglio regionale della Calabria, dalla Prefettura e da chissà quanti ancora); e dall’altro l’eterna retorica, il «discorso», l’«intervento», i «saluti», la parola alata (e ovviamente vuota), che ancora tanto successo, ahimè, sembrano riscuotere specialmente nel Mezzogiorno.

Le cui speranze invece - se ancora ce ne sono - stanno sicuramente altrove. E cioè nella pura e semplice applicazione della legge. Per esempio nell’azione di uomini come quel pugno di carabinieri della Compagnia di Scalea (è giusto che il Paese conosca almeno i nomi dei loro ufficiali - il capitano Vincenzo Falce e il colonnello Francesco Ferace - nonché quello del magistrato che li ha coordinati, il procuratore della Repubblica Giuseppe Borrelli), i quali pochi giorni fa, dopo anni di indagini, hanno smantellato la rete di dominio assoluto che la ‘ndrangheta aveva steso da tempo su quella cittadina del Cosentino. Dapprima facendo eleggere sindaco direttamente un proprio affiliato e quindi avendo mano libera per rubare su ogni appalto, taglieggiare chiunque, trafficare su qualunque cosa.

Nel discorso pubblico, alle tante parole dei professionisti della legalità va anteposta l’enfasi sull’azione della legge. E non è vero che perché questa abbia successo è necessaria l’esistenza di quelle. L’azione della legge, rapida, efficace, massiccia, è di per sé la maggiore fonte di cultura della legalità. Certamente la più convincente. La lotta alla criminalità organizzata - criminalità che insieme alla disoccupazione è la prima emergenza italiana - non ha bisogno di premi all’«antimafioso dell’anno» o dell’ennesimo comizio del Leoluca Orlando di turno. Ha bisogno di un maggior numero di magistrati bravi e coraggiosi, di più commissariati di polizia e di più stazioni di carabinieri, le quali non siano però nelle condizioni in cui si trova quella di Scalea, che i giornali descrivono stipata al primo piano di un vecchio condominio, la segnaletica «carabinieri» nascosta dietro un albero, con le porte sfasciate e riparate alla meglio dagli stessi militari nel tempo libero. Ha bisogno soprattutto che i ministri della Giustizia e dell’Interno invece di recarsi in pompa magna ai convegni a Palazzo dei Normanni, o a Ballarò o dove che sia, girino per la Calabria, per la Campania, per la Sicilia, vedendo di persona; parlando con le persone. Facendo sentire a tutti che lo Stato è presente. E - se non è dire troppo - pronto a colpire.

Ermesto Galli Della Loggia - Corriere della Sera del 22 Dicembre 2013