In quanto Procuratore Generale mi occupo delle misure di sicurezza nei confronti dei magistrati nelle tre province di Palermo, Trapani e Agrigento. Questa parte della mia attività è divenuta sempre più impegnativa perché in questi ultimi mesi si sta registrando una straordinaria escalation di minacce, di intimidazioni che credo non abbia precedenti e che riguarda un numero crescente di magistrati. Non si tratta solo dei magistrati di cui ha dato notizia la stampa nazionale – mi riferisco per esempio a Di Matteo, agli altri pm che si occupano del processo sulla cosiddetta trattativa, ai quali in questi giorni si è aggiunta Teresa Principato, che segue le indagini per la cattura di Matteo Messina Denaro – ma anche di altri pubblici ministeri e di magistrati della giudicante, soprattutto quelli che si occupano delle misure di prevenzione. La mia sensazione complessiva è che all’interno dell’universo mafioso stia accadendo qualcosa, che stia lievitando una insofferenza sempre maggiore di cui occorre decifrare le motivazioni complessive. L’idea che mi sono fatto è che occorre distinguere due tipi di pericoli. Un pericolo che viene dal presente, dall’attualità della mafia della Seconda Repubblica; e un pericolo di natura diversa che viene dal passato, cioè dalla mafia della prima Repubblica. L’interagire di questi due pericoli potrebbe creare una miscela esplosiva. I pericoli che vengono dal presente e hanno, a mio parere, una causale economica.
Anche la mafia soffre la crisi
La crisi economica che attanaglia tutto il paese ha messo in grave difficoltà anche la mafia siciliana in quanto ha ridotto drasticamente le entrate derivanti dalla predazione sistematica dei fondi pubblici realizzata in mille modi, grazie anche a ramificate relazioni collusive con il ceto politico-amministrativo (manipolazione di appalti e commesse pubbliche); e le entrate derivanti dalle estorsioni “a tappeto”. Nel 2007 gli investimenti pubblici avevano raggiunto 890 milioni di euro mentre nel 2012 si sono ridotti a 351 milioni e nei primi otto mesi del 2013 a 196 milioni. Quanto alle estorsioni si va riducendo sempre di più la platea numerica dei soggetti da estorcere. Sono migliaia le imprese che hanno chiuso i battenti e altre sopravvivono a stento tra mille difficoltà. La riduzione delle entrate ha un impatto notevole sulle spese correnti di ordinaria amministrazione dell’organizzazione. Mancano i soldi per mantenere le numerose famiglie dei carcerati, per pagare la mesata della manovalanza in libertà, per finanziare le spese legali. Cresce dunque giorno dopo giorno un’insofferenza che non si manifesta solo nei confronti della magistratura accusata, per esempio, di sequestrare e confiscare imprese e beni mettendo sul lastrico centinaia di famiglie; ma anche e soprattutto – e qui sta la novità – nei confronti della stessa classe dirigente di Cosa Nostra. Nei confronti di alcuni capi un tempo ritenuti carismatici, come Messina Denaro, monta la critica di pensare solo a se stessi e ai propri affari, disinteressandosi del popolo mafioso. Ad altri capi viene mossa la critica di esser troppo deboli, incapaci di “far abbassare le corna a una magistratura troppo ringalluzzita”. Come nella società civile legale nei momenti di crisi economica e di scontento prende corpo la richiesta di uomini forti che assumano il comando e fermentano fenomeni di spontaneo ribellismo, così nel mondo mafioso cresce la richiesta di uomini forti che mettano da parte la strategia provenzaniana della sommersione che andava bene quanto gli affari giravano per tutti; uomini forti che sappiano battere i pugni sul tavolo. Contemporaneamente, vista la mancanza di una solida e autorevole leadership, si profila il pericolo di un “rompere le fila”, cioè che ognuno si senta legittimato ad autogestire a livello individuale e in ordine sparso minacce e intimidazioni ai magistrati. Cresce anche il rischio che qualche emergente si autoproponga come l’uomo forte della situazione compiendo gesti di rottura. Per completare il quadro telegrafico sui pericoli che vengono dal presente, aggiungerei il soffiare sul fuoco di questo scontento popolare da parte di un mondo di colletti bianchi gravitanti nel mondo dell’imprenditoria collusa o contigua che, dietro le quinte, cavalca strumentalmente la crisi additando come corresponsabile una magistratura accusata di sequestrare e confiscare imprese un tempo floride che davano lavoro portandole al fallimento. Sono accuse infondate perché le imprese erano floride solo perché venivano gestire nell’illegalità evadendo il fisco, imponendosi sul mercato con metodi mafiosi, eppure fanno presa (…).
Il boss allude al ritorno alle maniere forti
Vengo ora a esaminare i pericoli che vengono dal passato, cioè dalle minacce e dai propositi di morte di Riina di cui la stampa nazionale ha dato ampie notizie. In sostanza Riina invoca un ritorno alle maniere forti, il compimento di gesti eclatanti di rottura per dare una lezione ad una magistratura che non intende fermarsi nelle indagini. Questo imput di Riina che viene dal vertice dell’organizzazione da parte di un capo che, seppure detenuto da 24 anni, secondo le regole di Cosa Nostra non è mai decaduto dalla carica, intercetta la voglia crescente del ritorno alle maniere forti che viene spontaneamente dal basso. Al di là degli scopi immediati e reconditi di Riina, le sue parole possono dunque essere interpretate all’interno dell’organizzazione come una investitura o un’ autorevole legittimazione all’azione di coloro che premono per un ritorno alle maniere forti, spostando così l’ago della bilancia a loro favore rispetto ai “moderati”. Riina ha continuato a manifestare quei propositi di morte anche dopo avere appreso dalla stampa che le sue parole erano state ascoltate. La situazione di instabilità politica è un ulteriore fattore di incremento del rischio. Veniamo ora all’analisi delle minacce di Riina, e qui sta la parte più difficile. In questi ultimi tempi mi veniva da pensare che in questo paese è come se fossimo prigionieri del nostro passato, un passato che pesa come un’enorme zavorra sul futuro. Siamo nell’Italia del 2014, la prima Repubblica è defunta da un quarto di secolo, la seconda è agli sgoccioli, il mondo è cambiato e noi siamo ancora qui a interrogarci, a misurarci con i pericoli di una possibile ripresa della strategia stragista. Costretti dunque a vivere con la testa rivolta all’indietro, perché se volti le spalle al passato, può colpirti a morte per ragioni che vengono da lontano e che restano indecifrabili a chi ignori la storia del nostro paese, la cruenta e segreta lotta per il potere che ha segnato la storia italiana. Quando abbiamo appreso dei propositi di morte di Riina ci siamo posti alcuni interrogativi che, a mio parere, non hanno trovato sinora risposte plausibili. Il primo nasce dal fatto che quelle minacce così reiterate non sembrano avere una causale apparente adeguata. Mi spiego: le stragi del 1992-‘93 erano una reazione alla conferma nel gennaio del 1992 della condanna del maxiprocesso da parte della Cassazione. Una vendetta nei confronti dei politici che non avevano mantenuto le promesse di impunità, di Falcone e Borsellino artefici di quel processo e – secondo una tesi accusatoria in corso di verifica e nel cui merito non entro – anche uno strumento per esercitare pressioni su alcuni vertici statali per indurli a concedere benefici processuali. Ma una strage che dovesse essere compiuta ora e che dovrebbe colpire Di Matteo o qualcuno degli altri magistrati che gestiscono il processo sulla “trattativa”, che scopo avrebbe? Ove pure quel processo dovesse concludersi con sentenze di condanna, si tratterebbe di pene detentive di pochi anni, assolutamente irrilevanti per uno come Riina che ha collezionato una serie di ergastoli. Dunque perché fermare un processo che avrebbe conseguenze processuali pratiche insignificanti per Riina? Direi di più: un’eventuale strage avrebbe effetti assolutamente contro producenti perché cristallerebbe nell’immaginario collettivo di gran parte della pubblica opinione la certezza che la strage è stata compiuta per impedire l’accertamento della verità, radicando così la certezza che la tesi accusatoria era fondata. Un boomerang quindi. Non appare plausibile poi la spiegazione che Riina non tollererebbe di essere dipinto – secondo la tesi accusatoria – come uno che avrebbe avuto rapporti sottobanco con esponenti dello Stato per condurre una trattativa, perché avere avuto quei rapporti equivarrebbe, secondo la sua mentalità, ad un atto di “sbirritudine”. Stando alla tesi accusatoria, Riina nel processo giganteggia come il grande capo che avrebbe costretto alcuni esponenti dello Stato a trattare in un rapporto di potenza a potenza, e secondo il disegno di “fare la guerra per fare la pace”. Il processo quindi non gli crea affatto un danno di immagine ma, al contrario, esalta, seppure nel male, la sua immagine. Ragionando per esclusione, tutti gli interrogativi restano aperti e per questo motivo sono a mio parere ancora più inquietanti perché non si riesce a trovare una spiegazione adeguata alla rabbia di Riina. A meno di non concludere che ci troviamo dinanzi a un comportamento irrazionale, al delirio di onnipotenza di un uomo condannato all’impotenza, e tenuto conto che non si riesce a trovare una spiegazione plausibile all’interno dello scenario processuale esistente e visibile – quello ricostruito nel processo della “trattativa” – non resta che ipotizzare che ciò che preoccupa Riina stia nel fuori scena. Cioè in un retroscena delle stragi del 1992-‘93 che non è ancora divenuto processuale, ma che si teme potrebbe divenirlo perché le indagini non si sono mai fermate e prima o poi qualche bocca che sinora è rimasta prudentemente chiusa potrebbe cominciare a parlare , soprattutto se dovesse aprirsi una fase di instabilità politico-istituzionale. Cosa si potrebbe celare di tanto misterioso e terribile nel fuori scena rimasto finora segreto da turbare i sonni di Riina al punto di incitare ripetutamente a compiere gesti eclatanti per scongiurare l’ evento della sua possibile emersione? A questo punto il discorso si fa complicato, perché non può essere più portato avanti mettendo in campo solo personaggi come Riina, Provenzano, ma occorre chiamare in causa quello che Falcone definì il “gioco grande” di cui la mafia ha sempre fatto parte.
La lotta per il potere si combatte nell’ombra
Falcone coniò quell’espressione per definire il gioco grande del potere dopo il fallito attentato all’Addaura del 1989, quando si rese conto che accanto ai mafiosi dell’ala militare avevano agito per il suo omicidio menti raffinatissime esterne alla mafia, i cui interessi convergevano con quelli della mafia. Falcone sapeva benissimo, sin da quando indagando sul riciclaggio internazionale si era imbattuto nel caso Sindona, nella P2, nell’omicidio Ambrosoli, nell’omicidio Calvi, che la lotta per il potere in Italia non si è svolta solo alla luce del sole, ma anche e soprattutto nell’ombra, utilizzando in alcuni momenti cruciali l’omicidio politico e le stragi, avvalendosi talora della mafia come braccio armato e della causale mafiosa come copertura per celare sottostanti causali politiche che dovevano restare segrete. Non esiste un solo paese europeo la cui storia sia segnata come quella italiana da una catena così lunga di stragi, omicidi politici, progetti eversivi dall’inizio della Repubblica al 1993. In questo gioco grande e sanguinoso del potere, la mafia ha svolto spesso un ruolo di coprotagonista in sinergia con altri poteri: pezzi deviati dello Stato, massoneria segreta, destra eversiva. Non è un caso che il capo mafia Luigi Ilardo, assassinato pochi giorni prima che iniziasse a collaborare con la magistratura rivelando i retroscena delle stragi del 1992-‘93 avesse anticipato che quel che era avvenuto era un discorso che veniva da lontano, aggiungendo che molti attentati in passato attribuiti alla mafia avevano causali complesse al di là della mafia (…). Lo stragismo non segna solo la fine convulsa della prima repubblica nel 1992-1993, ma anche il suo inizio. La Prima Repubblica viene tenuta a battesimo dalla strage politico-mafiosa di Portella della Ginestra del 1 maggio 1947 che segna l’inizio della strategia della tensione e vede interagire gli stessi personaggi che saranno all’opera nei decenni successivi in altre stragi e progetti eversivi: mafiosi, mandanti politici, pezzi deviati dello Stato, massoni ed esponenti della destra eversiva. Da allora il gioco grande non ha mai subito interruzioni e ha visto spesso tra i suoi coprotagonisti la mafia. Nel 1970 la mafia viene coinvolta, come hanno raccontato Buscetta e Calderone, nel progetto del golpe Borghese che vide scendere in campo la stessa formazione del 1947. E ancora viene coinvolta nella strategia della tensione che insanguinerà il paese dal 1969 in poi. Alla fine del 1969 Cosa Nostra aveva programmato una serie di attentati che dovevano essere eseguiti con ordigni esplosivi da collocare in varie città italiane come Palermo, Catania ed Enna (…). Potrei citare molti altri esempi, mi limito solo a ricordare che la strage del Rapido 904 consumata il 23 dicembre 1984 con 15 morti e 267 feriti, ebbe tra i suoi artefici Pippo Calò, i cui rapporti con la massoneria e con la destra eversiva sono stati processualmente provati. In tante, in troppe di queste stragi si sono verificati depistaggi e coperture degli esecutori materiali da parte di esponenti delle istituzioni certificate anche in sentenze definitive. È certo inquietante prendere atto che anche nelle indagini per le stragi del 1992-’93 si sono verificati depistaggi che ricordano quelli del passato: la sottrazione dell’agenda rossa di Borsellino, l’inquinamento con falsi collaboratori delle indagini sulla strage di via D’Amelio. Perché ho voluto tracciare questo telegrafico excursus del gioco grande del potere e del protagonismo della mafia in questo gioco? Perché vi sono molti elementi che inducono a ritenere che anche lo stragismo del 1992-‘93 sia stato un gioco grande nel quale si sono saldati convergendo – come in passato – interessi mafiosi e interessi di soggetti esterni che nel disegno stragista si sono inseriti orientandolo nei tempi, nei modi, negli obiettivi, in modo da conseguire obiettivi che inglobavano quelli mafiosi, ma avevano un respiro e un orizzonte più ampio.
Una “nuova strategia della tensione in Italia”
Mi limito a indicare alcuni elementi che peraltro sono noti agli specialisti della materia. Il 4 marzo 1992, otto giorni prima dell’omicidio di Salvo Lima, Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini per la strage di Bologna e detenuto in carcere, scrive una lettera al giudice istruttore Grassi il cui titolo è “Nuova strategia della tensione in Italia – Periodo marzo – luglio 1992”. Ciolini anticipa che nel periodo marzo-luglio sarebbero avvenuti fatti intesi a destabilizzare l’ordine pubblico come esplosioni dinamitarde, sequestro ed eventuale omicidio di esponente politico Dc ed eventuale omicidio del futuro presidente della Repubblica. Pochi giorni dopo l’omicidio Lima da lui preannunciato, il 18 marzo Ciolini rivela in un altro appunto che il piano era stato deciso da esponenti di massoneria, politica e mafia. (…) Nella parte finale dell’appunto scrive: “Creare intimidazione nei confronti di quei soggetti e Istituzioni stato (forze di polizia ecc.) affinché non abbiano la volontà di farlo e distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia”. Si tratta non solo di una straordinaria anticipazione della tempistica e degli obiettivi della fase stragista che si consuma nel 1992 in Sicilia, ma anche dell’ anticipazione del successivo trasferimento della strategia stragista fuori dalla Sicilia, nel Centro Nord e della spiegazione dei motivi. I registi del piano avevano previsto che dopo la prima fase, si doveva distogliere l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, creando un pericolo diverso e maggiore. A tale fine le stragi dovevano essere effettuate al Centro Nord, dovevano essere attribuite non più alla mafia ma a fantomatiche sigle eversive (e infatti vengono rivendicate con la sigla Falange armata) portando il terrore in tutto il paese con effetti destabilizzanti dell’intero sistema politico che si voleva portare al collasso. Come faceva Ciolini a sapere con così largo anticipo tutto quanto sarebbe poi in effetti accaduto? Pochi giorni dopo l’omicidio Lima, il 19 marzo 1992 veniva pubblicato su una rivista vicina ai servizi segreti un articolo nel quale si rivelava che quell’omicidio era solo l’incipit di una strategia della tensione che aveva obiettivi e ispiratori politici. L’articolo descriveva un piano di destabilizzazione la cui esistenza e configurazione sarebbero state rivelate nei medesimi termini, solo alcuni mesi dopo, da alcuni collaboratori di giustizia. Costoro dichiaravano che verso la fine del 1991 si erano tenute delle riunioni tra i vertici regionali di Cosa Nostra nelle campagne di Enna in esito alle quali si era deciso di aderire a un progetto di destabilizzazione politica che aveva tra i suoi artefici esponenti della massoneria deviata, del mondo politico e della imprenditoria (…). Chi e perché aveva deciso che Falcone, invece di essere facilmente ucciso a Roma con colpi di arma da fuoco, doveva essere assassinato a Palermo con un’enorme quantità di esplosivo in grado di uccidere insieme a lui anche un numero elevato di altre vittime? Nessun collaboratore è stato mai in grado di spiegare il motivo di quel cambio di strategia e chi la suggerì. Riina è tra i pochissimi a sapere la verità. Proseguendo nella indicazione degli elementi di emersione del gioco grande sotteso alla strategia stragista, possiamo ricordare che il 21 e 22 maggio 1992 l’agenzia di stampa vicina ai servizi sopra menzionata anticipò in due articoli che stava per verificarsi un bel botto esterno per influenzare l’elezione del presidente della Repubblica in corso di svolgimento. Giovanni Brusca, uno degli esecutori materiali della strage di Capaci, ha dichiarato in dibattimento che la tempistica della strage aveva consentito di conseguire l’obiettivo di mettere fuori gioco Giulio Andreotti dalla corsa alla presidenza della Repubblica.
I quesiti senza risposta nel biennio delle bombe
Chi aveva suggerito a Riina oltre che le modalità esecutive anche la tempistica? Riina sa la verità. E ancora è interessante constatare come dopo che Claudio Martelli, Ministro della Giustizia, aveva varato il decreto Falcone che introduceva il 41 bis anche per i mafiosi, si siano mossi contro di lui contemporaneamente i mafiosi che progettarono un attentato, ed alcuni esponenti della P2 che iniziarono una campagna di stampa nei suoi confronti rivelando circostanze decisive circa il suo coinvolgimento nella vicenda del Conto Protezione che determinarono l’inizio di un procedimento penale e le sue conseguenti dimissioni. Si tratta di una singolare coincidenza di tempi o di una sinergia non casuale? Poco dopo le dimissioni giunse una telefonata della Falange Armata con la quale si comunicava che Martelli doveva essere grato che per lui era stato perseguita la via politica anziché quella militare. E ancora: chi era il soggetto esterno a Cosa Nostra che, come ha rivelato Gaspare Spatuzza, assistette al caricamento dell’esplosivo nell’autovettura utilizzata per la strage di via D’Amelio? Perché dopo il rapimento del figlio del collaboratore di Giustizia Santino Di Matteo, la moglie del Di Matteo in una conversazione intercettata del 14.12.1993 scongiurò il marito di non parlare degli “infiltrati” nella strage di via D’Amelio? Chi erano quegli infiltrati? E chi suggerì di scegliere per gli attentati consumati a Roma nella notte tra il 27 e il 28 luglio le Chiese di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro? È un caso che quelle chiese avessero il nome di battesimo di Giovanni Spadolini e di Giorgio Napoletano, rispettivamente presidenti del Senato e della Camera? È un caso che Spadolini nel 1992 avesse fatto riferimento in varie interviste a un resoconto dei servizi segreti su rapporti intessuti di recente tra la mafia siciliana e alcuni settori della vecchia e nuova P2 e svesse indicato i vertici P2 come un grave pericolo per la democrazia? Come si spiega che nella stessa notte si verificò un black out dei centralini di alcune sedi di governo? Perché l’allora premier Carlo Azeglio Ciampi maturò, come lui stesso ha dichiarato, la convinzione che fosse in atto un progetto di colpo di Stato, convocando in via straordinaria il Consiglio supremo di difesa? Cosa si cela dietro lo strano suicidio in carcere di Antonino Gioé, esecutore della strage di Capaci, depositario di scottanti segreti e in contatto con i servizi, il 29.7.1993 due giorni dopo le stragi di Milano e Roma? É vero che, come afferma il collaboratore Di Matteo, Gioè stava per iniziare a collaborare con la giustizia? Perché e chi dispose un’esercitazione militare tra il 9 e l’11 novembre 1993 per l’ipotesi di guerra civile? E cioè proprio nello stesso periodo in cui veniva progettata la strage allo stadio Olimpico? Potrei continuare con decine di quesiti inquietanti, ma mi fermo qui. Credo che quanto ho sin qui frammentariamente ricordato dia il senso di un possibile fuori scena, di un “gioco grande” che da sempre aleggia intorno alle ricostruzioni processuali sin qui effettuate come una matrioska più grande che contiene matriosche più piccole. Un gioco grande che qualcuno teme possa di-svelarsi e irrompere sulla scena processuale se dovesse cedere qualche punto del sistema che sino a oggi e riuscito a blindare nel segreto i retroscena della stagione 1992-‘93. Spero fortemente che abbiano ragione coloro che ritengono che le minacce di Riina siano solo lo sfogo e il delirio di onnipotenza di un uomo ridotto all’impotenza. Perché se così invece non fosse, quelle minacce suonerebbero come una sorta di chiamata alle armi per tutti coloro che come Riina e più di Riina hanno interesse a che questa parte della storia resti per sempre segreta, e che sulla scena restino solo un’icona assoluta del male di mafia come Riina e solitari paladini del bene come Falcone e Borsellino, da celebrare nelle cerimonie ufficiali senza porsi troppe domande scomode alle quali non si può dare risposta. A quelle domande la magistratura palermitana continuerà a cercare di dare risposta, costi quel che costi.
Roberto Scarpinato, Procuratore generale presso la Corte d'Appello di Palermo