Non ha mai sentito il boss Giuseppe Graviano pronunciare espressamente la parola trattativa, ma è sicuro che il capomafia di Brancaccio alludesse proprio a un accordo in corso tra Cosa nostra e altri soggetti. Al processo sul patto che pezzi dello Stato avrebbero stretto con le cosche, depone Gaspare Spatuzza, ex uomo di fiducia del padrino stragista di Brancaccio. È dal boss che il pentito, a fine ‘93, sente dire che «c'era in piedi una cosa che, se fosse andata a buon fine, avrebbe dato benefici a tutti, in primis ai detenuti». Una frase, quella pronunciata da Graviano, che sarebbe seguita a una velata obiezione di Spatuzza all'idea di pianificare un attentato in grande stile contro i carabinieri.
«Ci stiamo portando troppi morti innocenti dietro», avrebbe detto il pentito, mettendo in discussione la deriva terroristica presa dalla mafia dopo gli attentati a Falcone e Borsellino, quando - dice - «colpimmo la società civile». «Lo dobbiamo fare - avrebbe risposto il boss -. Così chi deve smuoversi si smuove».
Le frasi sibilline del capomafia che, pochi mesi prima aveva ordinato la morte di don Pino Puglisi, il prete scomodo che contrastava i boss sul loro territorio, furono più chiare a Spatuzza qualche settimana dopo. A gennaio del ‘94 il collaboratore, a Roma per organizzare l'attentato ai carabinieri allo stadio Olimpico - «doveva essere una "tunnina" (una mattanza ndr), spiega - rivede Giuseppe Graviano. Un incontro ormai noto, quello tra i due mafiosi, che sarebbe avvenuto al bar Doney, in via Veneto. Il capomafia di Brancaccio era felice.
E soddisfatto avrebbe detto al suo braccio destro: «Abbiamo ottenuto tutto quel che cercavamo grazie a delle persone serie».
Un'allusione ai suoi interlocutori che non erano «come quei quattro "crasti" (cornuti ndr) dei socialisti» che prima avevano chiesto i voti e poi avevano fatto la guerra. «'Ve l'avevo detto che le cose sarebbero andate a finire bene», avrebbe detto il boss svelando poi i nomi dei suoi referenti: Silvio Berlusconi e il compaesano Marcello Dell'Utri.
È il nodo centrale della deposizione del collaboratore di giustizia. Ed è il passaggio più contestato dal legale di uno degli imputati del processo, Dell'Utri appunto. Per l'avvocato Giuseppe Di Peri, Spatuzza non è attendibile perché ha raccontato l'episodio del bar Doney ben oltre i 180 giorni che la legge indica come termine massimo che i pentiti hanno per indicare i temi più rilevanti a loro conoscenza. Accuse che il teste respinge. «La mia collaborazione è seria», dice e rilancia: «Se abbiamo consegnato una parte di verità non è certo per la commissione presieduta da Mantovano e da chi l'ha istigata», dice alludendo al no iniziale della commissione del Viminale alla sua ammissione al programma di protezione.
Nella sua deposizione, Spatuzza ripercorre anche la sua lunga storia criminale - «ho commesso circa 40 omicidi purtroppo», dice - e racconta di essersi autoaccusato, dopo aver deciso di collaborare, anche di fatti di cui non era stato sospettato.
Come la strage di via D'Amelio. Le verità del pentito hanno consentito ai magistrati di riscriverne la storia e di svelare il clamoroso depistaggio costato l'ergastolo a 8 innocenti. Ne ha parlato anche ieri Spatuzza, ripercorrendo le fasi preparatorie dell'attentato: dal furto della 126 poi imbottita di tritolo, a quello delle targhe da sostituire. E ha accennato anche a un misterioso personaggio che avrebbe incontrato nel garage in cui portò la vettura il giorno prima dell'esplosione. «Doveva avere 50 anni - dice -. Non l'avevo mai visto prima, né lo vidi dopo quella volta. Di certo non era di Cosa nostra».
«In questi anni - assicura il pentito che non è riuscito a identificare l'uomo - mi sono sforzato di dare indicazioni su di lui, ma lo ricordo come un negativo sfocato di una foto».