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05/02/2015 10:35:00

Trattativa, Nicolò Amato: "Fui cacciato per il mio rigore sul 41 bis"

 Non parla espressamente di complotto, ma il senso è quello. Dietro al suo allontanamento dalla guida del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a giugno del ’93, ci sarebbe stato un disegno preciso: togliere di mezzo chi come lui, dopo le stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio, aveva sostenuto attraverso il 41 bis una politica carceraria di rigore verso gli uomini d’onore.

La tesi di Nicolò Amato, al Dap per dieci lunghi anni, è questa. L’ha scritta in un libro e l’ha ribadita oggi nel corso della sua lunghissima testimonianza al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia rispondendo ai pm che, nelle manovre tese ad alleggerire il carcere duro per i mafiosi, vedono una delle prove del patto tra pezzi delle istituzioni e i clan.

E tra i personaggi che si sarebbero opposti alla sua linea e che l’avrebbero allontanato cita l’ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro e l’ex capo della polizia Vincenzo Parisi. “Dopo la strage di Capaci concordammo con l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli di reagire nel modo più duro possibile dando alla mafia non solo una risposta politica, ma anche emotiva”, ha raccontato Amato alla corte d’assise, in trasferta nel bunker di Rebibbia per ascoltare una serie di testimoni. Per dimostrare alla criminalità che si faceva sul serio si cominciò col riaprire le supercarceri di Pianosa e L’Asinara da poco dismesse. Poi ci fu l’omicidio del giudice Paolo Borsellino e arrivò un’altra stretta.

“Martelli mi disse – ha raccontato Amato – : ‘Dammi il modo di fare un atto politico significativo’. Io chiamai la direttrice del carcere Ucciardone e individuammo i 55 detenuti più pericolosi da trasferire. Li portammo a Pianosa e gli applicammo il carcere duro”. Dopo alcuni giorni in due tranches si decise lo stesso provvedimento prima per 532 detenuti, poi per altri 567.

Ma le scelte di Amato, sostenute politicamente da Martelli, ebbero, secondo il teste, uno stop con l’arrivo di Conso in via Arenula. L’ex capo del Dap fa un esempio per tutti: nel febbraio ’93, dopo l’assassinio di un sovrintendente penitenziario da parte della camorra, a Napoli, venne firmato un decreto che prevedeva pesanti restrizioni carcerarie per i detenuti di Secondigliano e Poggioreale.

“Dopo 12 giorni – ha raccontato – Conso lo revocò anche su sollecitazione del prefetto di Napoli, preoccupato delle ripercussioni esterne della misura”. “Conso – ha aggiunto – mi disse di avvertire Mancino della decisione presa, cosa che feci, come dimostra un biglietto che ancora conservo”.

Amato ha raccontato di un Guardasigilli molto preoccupato del parere di Mancino e di un Vincenzo Parisi, allora capo della polizia, contrario alle strette carcerarie fino ad allora sostenute. La svolta nella sua carriera e nella politica sul 41 bis, però, sarebbe arrivata a marzo del ’93, quando alcuni familiari di detenuti mafiosi al 41 bis scrissero all’allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro per denunciare gli eccessi “del dittatore Amato”.

“Di quella lettera che conteneva gravissime minacce a me – ha raccontato – non mi fu detto nulla. Ne seppi l’esistenza dopo tempo. Se me ne avessero parlato, avrebbero dovuto dirmi se ero d’accordo a un alleggerimento del regime di 41 bis e io avrei risposto di no. E a quel punto come avrebbero potuto giustificare una mia rimozione?” Amato venne sostituito da Adalberto Capriotti. “Fu Scalfaro – ha detto – a non volermi più al Dap”.