Quattro suicidi in otto giorni. Sono i tragici numeri di un maggio belicino davvero cupo.
Tra Castelvetrano e Santa Ninfa, tre giovani e un anziano si sono tolti la vita: Alessandro Falsitta di 22 anni, Danilo D’Angelo di 27 anni e Antonio Marchese di 90, a Castelvetrano. E Baldo Leggio di 22 anni, a Santa Ninfa Tutti con le stesse modalità, l’impiccagione.
Quest’ultimo aveva già provato a suicidarsi in passato. Purtroppo stavolta c’è riuscito.
Federico era un amico di Danilo: “Aveva bisogno di aiuto. Forse di un aiuto specifico, oltre al nostro stargli vicino. Con un ernia del disco aveva ulteriori difficoltà a trovare lavoro – spiega – Era molto giù, ma non pensavamo che potesse arrivare a compiere un gesto simile. Oggi, purtroppo è difficile che a noi giovani venga concessa la possibilità di esprimerci. Siamo lasciati soli, senza lavoro, in una società che ci pretende felici e con i soldi in tasca.”
Difficile dargli torto, soprattutto sulla solitudine, che si traduce spesso in un mancato ascolto. Un’assenza di accoglimento che non permette di poter veicolare con efficacia il messaggio secondo cui il suicidio sia una “soluzione” permanente a problemi che, per quanto percepiti come insormontabili, hanno invece il carattere della temporaneità.
Certo, manca ancora quella cultura psicologica in grado di cogliere quei segnali che spesso emergono in coloro che poi decidono di togliersi la vita. E come sempre si pensa alla famiglia, alla scuola, alla chiesa, alle istituzioni sanitarie.
“Sono cose che mi sgomentano – dice Maria Antonietta Garofalo, insegnante alle superiori - Segnali di un profondo disagio, di una solitudine immensa. Una città che non offre spazi o centri di aggregazione giovanile non è una città per giovani, ma ovviamente non è solo un atto di accusa. Le famiglie non hanno gli strumenti per intercettare i segnali di inquietudine. La cosa che mi sgomenta di più è pensare ad una possibile emulazione del gesto. Forse la comunità di psicologi e sociologi dovrebbe mobilitarsi per capire meglio di me cosa sta accadendo”.
Ma per capire cosa sta accadendo non basta parlare di banche, alta finanza e multinazionali, che pure hanno tolto molte speranze a chi per la prima volta si è affacciato al mondo lavorativo. Così come non basta suggerire di vivere appieno la vita, o banalmente di essere ottimisti.
Occorre invece comprendere che il suicidio è un fenomeno multifattoriale, che non è mai causato da una cosa sola.
La maggior parte di coloro che si trovano in difficoltà non si suicidano. Si tratta di persone con particolari vulnerabilità, spesso torturate da un disturbo psichiatrico non individuato. Ecco che allora la miccia può essere una delusione amorosa, la perdita del lavoro, un grosso pignoramento, ma la valutazione non è mai soltanto di tipo economico.
E se esistono dei segnali di allarme che le persone vicine possono individuare come codificate richieste d’aiuto, purtroppo in Italia (soprattutto al sud) mancano gli strumenti per intervenire. Soprattutto quando la richiesta d’aiuto è ostacolata da una coscienza che invece lo rifiuta, circoscrivendo ogni problema ad un solo fattore, per esempio l’ambito lavorativo.
Certamente è un campo dove anche i media hanno le loro responsabilità quando si soffermano sui particolari del suicidio, col rischio di costruire delle cause uni fattoriali che, oltre a non dare contezza del problema, possono produrre l’inquietante fenomeno dell’emulazione, il cosiddetto “Effetto Werther”.
Probabilmente, parlare di politiche sanitarie di prevenzione del suicidio aiuterebbe molto di più. Senza dimenticare l’aiuto necessario ai familiari delle vittime che, dopo la tragedia, dovranno affrontare una difficile elaborazione del lutto.
Egidio Morici