Per Ivan Lo Bello “la Sicilia non cresce”. Il vicepresidente di Confidustria e presidente di Unioncamere dichiara: “La Sicilia e gran parte del Mezzogiorno vivono una stagione difficile. Non bisogna generalizzare perché anche qui esistono aree di eccellenza. Piccole ma ci sono. Tuttavia è chiaro che il quadro generale non è confortante. Siamo alla resa dei conti di una lunga stagione di sprechi e di spese assistenziali. Per lunghi anni mentre il nord investiva e creava ricchezza il sud si dedicava a nutrire le clientele o pagare forestali o lsu. Adesso le risorse sono finite ed è rimasto il deserto”.
Per Lo Bello, intervistato dal Giornale di Sicilia, bisogna ripartire “da un profondo rinnovamento delle classi dirigenti. Non solo quella politica ma anche la burocrazia che ormai è diventata una zavorra. Il cambiamento non si può fermare nemmeno sulla soglia del sindacato e del mondo delle imprese. Inutile fare le anime belle – aggiunge -: non tutte le imprese competono sul mercato libero preferendo le protezioni pubbliche e non tutte hanno comportamenti trasparenti”.
“Bisogna mettere in moto la macchina dello sviluppo partendo dal lavoro e valorizzando la componente migliore del mondo imprenditoriale. Il modello parassitario va abbandonato: non ha portato sviluppo ma povertà”, sottolinea Lo Bello, che lancia poi l’allarme sul “depauperamento del capitale ma non di quello economico bensì di quello umano. Nelle università c’è un calo delle iscrizioni spaventoso. I ragazzi migliori scappano e chi resta non sembra interessato alla costruzione di percorsi professionali d’eccellenza”.
Ecco il testo dell’intervista:
Il motore dell’economia italiana assomiglia molto a quello delle vecchie utilitarie. Ci aiuta a capire che cosa sta succedendo?
«Il dato nazionale riflette, purtroppo, il dualismo dell’ Italia: il passo tedesco del centro-nord e i ritmi mediterranei delle regioni del sud. L’uscita dalla crisi rende ancora più evidente il contrasto. La componente più avanzata del Paese riesce a venirne fuori più rapidamente. Le regioni più arretrate invece si attardano».Siamo a metà luglio e gli sguardi ormai sono già proiettati sulla ripresa autunnale. Che cosa dobbiamo attenderci? «I dati positivi non mancano come dimostra il recupero del 3% della produzione industriale. Nel complesso sono ottimista. Credo che cinque mesi di braccio di ferro sulla Grecia abbiano condizionato tutta l’ economia europea. Ora l’ ostacolo sembra superato».
Vuol dire che, per la prima volta dopo molto tempo, non dobbiamo temere la ripresa di settembre né il tradizionale autunno caldo? «Quelle che esprimo sono considerazioni strettamente personali. Comunque sì: mi aspetto a settembre una buona robusta ripresa. La Banca Centrale Europea prosegue il programma di stimolo monetario: il cosiddetto quantitative easing. La manovra contribuisce a tenere bassi i tassi d’interesse e il cambio dell’ euro a tutto vantaggio delle esportazioni. Il prezzo del petrolio non sale. Questo insieme di elementi è molto positivo».
Dalle cose che dice, però, il merito della ripresa è frutto di influenze esterne. E noi? «È chiaro che non ci possiamo fermare qui. Servono sforzi decisi per la modernizzazione del Paese. Il jobs act è stata una riforma importante. Ha dato segnali di rilievo e altri ne darà insieme al consolidamento della ripresa economica. Bisogna andare avanti. C’è stata la scuola. Aspettiamo la Pubblica amministrazione e le altre novità che sono state annunciate».
Le critiche non mancano. Per esempio per il fatto che, a guardar bene non è cambiato molto. Il jobs act che lei ha apprezzato a maggio ha prodotto solo 271 contratti a tempo indeterminato in più rispetto a quelli che c’erano. Un po’ poco non trova?
«Ma non bisogna illudersi. Le riforme non danno effetti immediati. Ci vuole tempo. Soprattutto considerando il deserto del passato. Finora l’ unica riforma importante è stata quella delle pensioni ed è nata sotto la spinta dell’ emergenza. Per quanto riguarda i 271 contratti a tempo indeterminato in più vorrei fare una considerazione aggiuntiva».Quale? «Non dobbiamo trascurare il fattore stagionale. Con l’ arrivo dell’ estate il contratto più usato è quello a tempo determinato in quanto legato ad attività specifiche come, per esempio, il turismo. L’ anno scorso il saldo era stato negativo per 17 mila unità. Quindi non è vero che il Jobs Act non funziona. Il saldo occupazionale che era fortemente negativo l’ anno scorso è diventato positivo».
Parliamo della Sicilia: poco fa ricordava il dualismo del Paese. L’impressione è che l’Isola sia il fanalino di coda della Seconda Italia. «La Sicilia e gran parte del Mezzogiorno vivono una stagione difficile. Non bisogna generalizzare perché anche qui esistono aree di eccellenza. Piccole ma ci sono. Tuttavia è chiaro che il quadro generale non è confortante. Siamo alla resa dei conti di una lunga stagione fatta di sprechi e di spese assistenziali. Per lunghi anni mentre il nord investiva e creava ricchezza il sud si dedicava a nutrire le clientele o pagare forestali ed lsu. Adesso le risorse sono finite ed è rimasto il deserto».
Da dove ripartire? «Da un profondo rinnovamento delle classi dirigenti. Non solo quella politica ma anche la burocrazia che ormai è diventata una zavorra. Il cambiamento non si può fermare nemmeno sulla soglia del sindacato e del mondo delle imprese. Inutile fare le anime belle: non tutte le imprese competono sul mercato libero preferendo le protezioni pubbliche e non tutte hanno comportamenti trasparenti. Bisogna mettere in moto la macchina dello sviluppo partendo dal lavoro e valorizzando la componente migliore del mondo imprenditoriale. Il modello parassitario va abbandonato: non ha portato sviluppo ma povertà».
Tre anni fa, proprio in estate ebbe grande risonanza la sua richiesta del commissariamento della Sicilia: vista la situazione se la sentirebbe di ripetere quell’ appello? «Il grido d’allarme che lancerei oggi è un altro ed è ancora più grave. Riguarda il depauperamento del capitale ma non di quello economico bensì di quello umano. Nelle università c’è un calo delle iscrizioni spaventoso. I ragazzi migliori scappano e chi resta non sembra interessato alla costruzione di percorsi professionali d’eccellenza».
Non sarà perché le università siciliane stanno in fondo alle classifiche italiane per qualità dell’insegnamento? «Il fenomeno riguarda tutte le facoltà. Quelle buone e quelle meno buone. Il problema è un altro ed è provocato dall’ impoverimento del tessuto sociale. I ragazzi vanno a studiare fuori dalla Sicilia immaginando altrove il loro futuro lavoro. È la sfida più importante. Se la perdiamo non c’ è più speranza. Possiamo immaginare tutte le imprese d’ eccellenza che vogliamo. Senza un adeguato capitale umano a disposizione sarà tutto inutile».