“Di solito, l’ordine dato a chi era imbarcato irregolarmente era di gettarsi in mare se arriva la Guardia Costiera o motovedette di altre forze di polizia”. E’ quanto ha dichiarato un tunisino alle dipendenze di pescatori marsalesi ascoltato nel processo, per omissione di soccorso in mare, che si celebra davanti il giudice monocratico Riccardo Alcamo per la morte del 19enne Lofti Tumia, annegato in poco più di tre metri d’acqua, il 26 luglio 2011, di fronte i circoli velici. Tre gli imputati: sono i marsalesi Vincenzo Bilardello, per il quale, adesso il pm Signorato, ha invocato la condanna a tre anni e un mese di carcere, Giuseppe Bilardello, padre di Vincenzo, per il quale è stata chiesta una multa di 300 euro, e Antonio Bilardello, fratello di Giuseppe, per il quale è stata chiesta l’assoluzione, seppur con la formula che ricalca la vecchia “insufficienza di prove”. Lofti Tumia, secondo l’accusa, era sull’imbarcazione (“Piccola Maria”) pilotata da Vincenzo Bilardello, per altro non in possesso della patente nautica per quel tipo di natante. Tumia finì in acqua (o forse vi si gettò perché qualcuno glielo ordinò, non essendo regolarmente assunto e imbarcato) quando in zona si avvicinò un gommone della Guardia Costiera. Il giovane, non sapendo nuotare (“Ma ai Bilardello – dice l’avvocato difensore Salvatore Errera – lui aveva detto che sapeva nuotare”), si trovò subito in difficoltà. Uno dei pescatori si gettò, poi, in mare per tentare di salvarlo, ma non vi riuscì. Antonio Bilardello era su un’altra imbarcazione da pesca che operava poco distante. Tiravano la sciabica. I genitori e i quattro fratelli della vittima si sono costituiti parte civile. Ad assisterli è l’avvocato Erino Lombardo, che chiesto un risarcimento danni “provvisionale” di 300 mila euro. La sentenza è prevista per il 19 novembre, dopo l’arringa di un altro difensore, l’avvocato Alessandro Casano.